Nella Vucciria di Sciascia dove passò Shakespeare

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La tomba di Leonardo Sciascia è quasi muta. Una lastra liscia di marmo, bianca. Il nome. I numeri di una vita durata appena sessantotto anni. 8 – I – 1921. 20 – XI – 1989. Sul fondo, una frase terribile, da coro della tragedia attica: “Ce ne ricorderemo, di questo pianeta”. Lo sentite quanto è terribile? Perfetto stupore di un mondo che non funziona, di una vita dove i giorni sono collezione di disincanto, dove la gente, ben che vada, è una delusione, dove la politica, al massimo, frutta ostilità che nemmeno la morte guarisce. Quella frase incisa sul marmo è un pianto soffocato. Capitava spesso – dicono – all’ultimo Sciascia di sciogliersi in lacrime misteriose. Di rabbia? Di nostalgia dell’impossibile? Impastate di quella montaliana “pietà di sé”, unica possibilità di accordare il proprio respiro ai sospiri di Enea, l’Ulisse dell’anima?

Nella Vucciria di Sciascia dove passò Shakespeare

Una lastra bianca rettangolare, fatta per prendere le misure di un uomo. Mi impedisce di ricordare quanti sono stati i letterati da antologia impegnati a sinistra ad avercela con Sciascia. E purtroppo dice anche com’è stato sommesso il consenso dei suoi amici. Ma si rischiava tanto ad andare controcorrente. La lealtà poteva – può – uccidere.

Sciascia era un animo generoso, infuocato, coraggioso, e un cervello ironico. Voce schietta contro la mafia, ha saputo smascherare le trame dei “professionisti dell’antimafia”. Li ha riconosciuti e accusati e infatti lui adesso se li ricorda, e bene. Loro invece no che non lo ricordano. Contate quante volte lo citano sui bei giornali dove scrivono, che, in un mondo di conformisti, fanno la fortuna o decretano la scomparsa di un autore.

Ma sì, perché Sciascia non ha concesso niente alla retorica del povero buono e del padrone cattivo. Cattivi sono un po’ tutti, nei suoi libri. Si salva solo l’eroe, per poi finire morto ammazzato o buttato in chissà quale ufficetto a marcire. La gente, che sia su un autobus ad annaspare di omertà o in un circolo di maschi laureati, è sempre colpevole. Solo l’eroe si salva. Solo lui. Lo dicono quei dialoghi, traboccanti dei sapori dei mercati di Palermo, ma come se ci fosse passato Sofocle a raccoglierli, o Shakespeare. C’è una profondità di comprensione delle cavità del cuore umano, delle pose e delle truffe della commedia umana, sconosciuta a un Novecento intontito dalla psicanalisi.

“- E quei quattro anni di carcere?

  • Passati.
  • Passati, va bene. Ma li hai fatti ingiustamente, no?
  • Mi sono fatto cinquantadue anni di vita, ingiustamente. I quattro che ho passato in carcere non mi pesano poi tanto. Il carcere è sicuro.
  • Che genere di sicurezza?
  • Mangiare, dormire. Tutto regolato.
  • E la libertà?
  • La libertà sta qui – disse l’uomo puntandosi un dito al centro della fronte.
  • Però hai detto di avere avuto fortuna, a trovare un avvocato che ti ha tirato fuori dal carcere.
  • Si dice per dire. Certo, non è stata una disgrazia. Dicevano che avevo ammazzato un uomo per prendergli del denaro, l’avvocato ha provato che ero innocente: una fortuna. Ma per il resto… – fece con la mano un gesto di noncuranza, di indifferenza.”
    Mangiare. Dormire. Tutto regolato. Ma in qualche modo scrivere. In qualche modo ricordare il romanzo della libertà.