Contro l’empatia: essere premurosi non fa sempre bene

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Foto di Gerd Altmann da Pixabay

Paul Bloom, professore di psicologia alla Yale University, ha scritto un libro che s’intitola Contro l’empatia, una difesa della razionalità.

Nonostante il titolo, Bloom afferma che essere contro l’empatia, oggi, è come essere contro i gattini, una cosa folle, strana, stravagante, che non può essere presa sul serio. Eppure, nel suo saggio ci spiega bene perché l’empatia rischia di essere una capacità dannosa e non sempre salutare.

Non invita a diventare tutti dei cinici degenerati, ci mancherebbe, ma cerca di spiegarci perché prendere decisioni mettendosi nei panni dell’altro, agendo “di pancia” e non usando la ragione, può condurci a fare scelte sbagliate.

Bloom definisce l’empatia come l’atto di fare esperienza del mondo come pensi che la faccia qualcun altro, ma per essere davvero premurosi, sembra essere più importante l’autocontrollo, l’intelligenza, e soprattutto la compassione. Se si è troppo coinvolti nell’emotività dell’altro, si rischia di non essere in grado di aiutarlo davvero, di non avere le forze e la giusta capacità di giudizio per agire nel migliore dei modi, per il bene altrui, per il bene comune.

Troppa empatia può portare anche a compiere atti di estrema crudeltà,
vendicativi. Questo non vuol dire smettere di usare il cuore: il cuore è necessario per motivarci a fare del bene; la testa per comprendere quale sia il modo migliore per farlo.

È esattamente ciò che riguarda anche il concetto di accettazione nella meditazione. Molti pensano che iniziando a meditare si debba accettare tutto incondizionatamente, diventare in qualche modo indifferenti, che si debba sopportare tutto in silenzio, ma non è così.

Accettazione vuol dire accettare quello che c’è in quel momento, fermarsi, osservarlo, capirlo, prenderne consapevolezza e poi cercare il modo più appropriato per rispondere alla situazione anziché reagire in un modo automatico che spesso ci porta ad adottare comportamenti deleteri.

Bloom ci racconta anche del suo incontro con il monaco buddhista Matthieu Ricard. Quando Bloom gli disse che stava scrivendo un libro contro l’empatia si aspettava da parte di un monaco una reazione scioccata, invece Ricard gli disse che era giusto, che l’empatia porta all’esaurimento, alla stanchezza d’animo, e che è la compassione la giusta strada da seguire, una grande compassione più distaccata, riservata, che può essere sostenuta anche da un bodhisattva, idea confermata anche dalle ricerche di neuroscienza, tra cui quelle di Tania Singer e Olga Klimecki che ci dicono come la compassione non comporti la condivisione della sofferenza ma sia caratterizzata da sentimenti di calore, premura e cura nei confronti dell’altro. “La compassione è un sentimento per e non un sentimento con gli altri.”

Bloom parla di molti esperimenti, ricerche, aneddoti e storie a sostegno dell’idea che la compassione e la gentilezza possono esistere indipendentemente dall’empatia, perché non possiamo agire per rendere il mondo un posto migliore se non siamo abbastanza intelligenti da capire quale azione porterà all’obiettivo.