A Illegio la mostra delle opere impossibili

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Nell’edizione del 2019, la mostra di Illegio, che vedeva un Picasso incastonato tra i saliscendi di strade curve del paesino carnico nascosto tra le montagne, ha fatto il record di quarantamila visitatori. Quest’anno sembrava che la pandemia dovesse fermare tutto. Ma i miracoli rispondono a leggi diverse dall’ordinario, così la mostra si è aperta, in un luglio dolce di sole, e sarà visitabile fino al 13 dicembre.

“Nulla è perduto” è il tema del 2020, risposta immediata alle insidie dei virus, ma soprattutto voce che urge nel cuore di ogni uomo. Quattordici opere impossibili, rubate, bruciate, scomparse, riappaiono davanti al visitatore in un allestimento impeccabile, suscitate da un’idea che già è arte grandissima: l’urgenza del ricordo, del ritorno, del respiro. La tecnologia permette ormai una ricostruzione perfetta degli originali perduti, rispettosa di ogni sfumatura. Si riesce a mimare perfino il dinamismo di un colore che rende le tele quasi tridimensionali, come nel caso delle pennellate profetiche di van Gogh.

Ed ecco la prima sala dell’esposizione e la prima vertigine: le vetrate aperte sull’infinito della Cattedrale di Chartres, ricreate dai maestri vetrai Tomanin di San Bellino. Gli originali sono troppo vicini al cielo per essere compresi in tutti i loro delicati e preziosi dettagli, comprese quelle sfumature sulle unghie su cui giustamente il direttore artistico, don Alessio Geretti, ci invita a soffermarci. Un tenacissimo amore di perfezione che è il fondamento ‘inutile’ di un mondo altrimenti condannato alla fragilità più buia.

Ma è lui, don Alessio, opera d’arte tra le opere cui consegna da anni la propria vocazione. Quando, accennando a un quadro in mostra, dice che noi, noi esseri umani, siamo: “una evidente infinità collocata in una impertinente finitezza”. Quando per spiegare la “felice e benedetta interruzione” dello sfilacciarsi della vita fragile, invoca il bacio di Klimt, dove due ministri dell’amore sono circondati da una superficie dorata simile alle aureole che avvolgevano i santi medievali.

L’arte che merita di essere ancora in mostra, ed eternamente dentro il nostro cuore, è un trasalimento contro la società “malata di positivismo, di un ottimismo smodato e ingenuo”, contro quella convinzione tipica di parecchi, nel tempo, “che con i nostri mezzi avremmo avuto la storia in pugno”. Ma non sarà mai un telescopio a mostrarci le stelle “azzurre, perfino rosacee” che vedeva van Gogh, passato dalla vocazione a fare il predicatore alla profezia affidata al pennello, capace di trovare il respiro di vita imprigionato nella materia. Monet, con la sua Cattedrale di Rouen, che non sta nel quadro: rabbioso “contro la folle convinzione del tempo suo, che le cose definite, esatte, calcolabili, controllabili siano tutto in questo mondo”.

Don Alessio ricorda che l’arte è “intensificazione della realtà”, espressione di quella “meraviglia di essere al mondo” solo apparentemente ingenua.

“Pupins” di Domenico da Tolmezzo Ph Anna Valerio

E poi c’è l’ultima stanza e il perché di queste mostre. I “pupins”, le statuine dei santi scolpiti nel 1492 da Domenico da Tolmezzo per la Pieve di San Floriano, che difende Illegio da un picco quasi eroico. Erano stati rubati e don Alessio ricorda le lacrime di chi, nei primi anni del suo ministero nel paesino carnico, gli raccontava di quel 1968 in cui aveva trovato l’altare violato. Per questo ha pensato a mostre d’arte che fossero la “riscrittura a rovescio di una brutta pagina della storia”. Ma da pochi anni san Vito e san Maurizio sono tornati, costretti dal pregare incisivo degli Illegiani, ed eccoli nell’ultima stanza, vestiti dell’oro del Friuli, un oro intonato alle loro facce un po’ affaticate da montanari. Messaggeri di un’eternità piena di riguardi per l’uomo e le sue lacrime calde