Jan Maria Michelini: “Tutto nacque con Braveheart di Mel Gibson…”

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"I Medici" - ph Fabio Lovino

Quando si comincia sul campo, grazie a un carattere intraprendente e all’accoglienza ricevuta dall’altra parte, la gavetta è tutta in salita. Così è stato per Jan Maria Michelini che, dai progetti più OFF a occasioni internazionali (tra cui I Medici), è riuscito a costruire un percorso di alta qualità. Attualmente è in onda con Diavoli, serie Sky Original con Alessandro Borghi e Patrick Dempsey di cui ha curato la regia degli ultimi 5 episodi.

Tutto è cominciato nel ’97 come assistente volontario per La via degli angeli di Pupi Avati. Com’è avvenuto?

Era d’estate, avevo 18 anni, si era sparsa la voce che nella campagna umbra si stava girando questo piccolo film; mi affacciai per chiedere se potessi lavorare con loro e mi accolsero. Mi sono molto appassionato al reparto delle macchine da presa e soprattutto ricordo che il direttore della fotografia mi fece posare l’occhio nella loop. Vivendo quei giorni sono stato attratto ancor più verso quel mondo. Appartengo anche a quella fascia che è passata dall’analogico al digitale.

Com’è nata la tua passione per la Settima Arte?

Sin da piccolo. Non ho artisti in famiglia, a parte uno zio che ha composto colonne sonore per i b-Movie all’italiana, stimolandomi sempre verso il cinema. Anche papà, da ragazzino, nutriva il mito dei set. Un giorno andai a vedere Braveheart di Mel Gibson e uscì piangendo. Lì ebbi la sensazione che avrei voluto fare questo mestiere. Qualche anno dopo mi sono ritrovato a lavorare con lui in The Passion

Cosa ti ha particolarmente segnato del vostro incontro?

Gibson è un regista sensibile e al contempo fisico e travolgente. Nella direzione degli attori mostra come dovrebbe essere la scena. Se tu, per primo, come regista vivi le emozioni dei personaggi, è un’energia che arriva agli interpreti e di conseguenza sullo schermo. E poi mi è rimasto impresso il suo coraggio. Ha realizzato The Passion in un momento in cui poteva decidere di fare ben altro e lo ha fatto per sé. Ha dato il via al progetto investendo un proprio budget, con le distribuzioni che non volevano farlo uscire. Il tutto tra mille accuse e critiche; ma l’ha voluto realizzare lo stesso.

Ti sei formato anche con gli spot e i videoclip…

Ho avuto la fortuna di incontrare i milanesi creativi di Superstudio13 – i quali hanno cominciato a prendermi in considerazione – e in seguito l’agenzia J. Walter Thompson. Nel frattempo continuavo a frequentare i set e a studiare all’università. È un lavoro lungo. Sono figlio di una generazione, quella dei filmakers, per cui prendevo la camera in spalla, mi occupavo del montaggio e creavo dei miei progetti, sapevo musicare e questo saper fare un po’ tutto mi è tornato molto utile. La gavetta serve anche a conoscere tutti i mestieri che poi ti ritroverai a dirigere. La pubblicità ha fatto sì che diventasse naturale il gusto della composizione e dell’inquadratura ed è uno dei motivi per cui giro quasi tutti i miei lavori stando in macchina com’è avvenuto con DOC – Nelle tue mani. Questo insegnamento è diventato un istinto primordiale, col tempo impari a concentrarti sulla storia mettendo l’estetica a servizio della narrazione. Quando giri una scena racconti un pezzo di vita e l’esistenza a volte ti sorprende per cui ho imparato tanto ad ascoltare e a non arrivare mai con un preconcetto.

Le riprese di DOC sono state interrotte per il coronavirus. Si spera che le ultime puntate vadano in onda in autunno. Cosa ha trasmesso questa serie in questo momento storico-umano?

Era stato deciso da mesi che venisse programmata a fine marzo. DOC ha portato nelle case la speranza che l’uomo sia ancora interessato all’essere umano. È un messaggio positivo non solo su un dottore, ma anche sulla bellezza della fragilità che diventa un’occasione per ricominciare. Il tutto senza indugiare mai sulle emozioni.

Ci racconti un episodio OFF?

Ne ho uno super-off: OFF significa per me indipendente e quindi libero, creativo in tutto. Dopo The Passion sono andato a Bombay con una piccola cinepresa e un registratore audio. Supportato da una produttrice locale ho realizzato una docu-fiction sul cinema indiano. A traghettare c’era un bambino col sogno della Settima Arte. Ho scoperto un mondo a me ignoto e sono entrato in contatto con tutte le superstar di Bollywood, ma soprattutto mi sono ritrovato a girare a random con questa giovanissima star del momento, improvvisando il racconto e scoprendo così il mito di bollywoodiano.

“I Diavoli”

Ci parli dello stile creato per Diavoli, diretto in co-regia con Nick Hurran…

Quando è venuto in Italia e toccava a lui impostare la serie, è stato molto incline al confronto. Lo stile è venuto strada facendo, ovviamente con dei paletti sul linguaggio che volevamo utilizzare. Da un certo punto in poi abbiamo lavorato in parallelo, non potendo attendere che lui concludesse le riprese, per cui c’è stata un’estrema fiducia. Lo stile si equivale nelle linee fondamentali (formato cinematografico a contrasto con dei momenti anche molto crudi e di estremo realismo, montaggio veloce, mezzi volti, primi piani, piccole sospensioni sempre legati all’emotività dei protagonisti), poi sta alla sensibilità di ognuno comprendere quali sono le piccole firme invisibili che appartengono alla pancia di ogni regista.

Cosa non vorresti che venisse frainteso di una serie sulla finanza, ambiente verso cui nutriamo un pregiudizio?

Non diamo un giudizio morale sulla finanza. Il titolo nasce da tutt’altro ma sarà bene rivelarlo più avanti. La finanza è fatta di esseri umani, alcuni sono disposti al sacrificio per il bene delle nazioni, anche se la logica del profitto prende alla gola quasi tutti; altri sono spregiudicati. Noi raccontiamo uno spaccato di storia realmente avvenuta, svelandone dei retroscena importanti. È un financial-thriller, ma sarebbe limitante definirlo solo così. Diventa un viaggio nello scoprire, svolta dopo svolta, quali potessero essere i giochi dietro la facciata del mondo della finanza e delle banche.