Giancarlo Mazzuca: vi racconto il “mio” Montanelli

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Giancarlo Mazzuca si gode la sua pensione in una Bologna che non è più tanto “dotta e grassa” come ai tempi in cui dirigeva il celebre giornale locale (e nazionale) il Resto del Carlino. Una vita ai massimi livelli del giornalismo e della cultura italiana, dal Corriere della Sera al Giornale fino al Giorno, senza dimenticare La Voce e altri quotidiani, ne hanno fatto uno dei direttori più letti e apprezzati dal grande pubblico. In effetti Mazzuca è un romagnolo colto e simpatico, ama gli aneddoti, le battute scherzose ma intelligenti e la buona cucina (a Bologna deve sempre portarmi in una trattoria che conosce, e stavolta – per sua sfortuna – deve pure offrire!). Vicino casa sua c’è la famosa alimentari Tamburini dove un giovane Montanelli, in città per un servizio, rimase affascinato dalle bellissime e profumate forme di mortadella appese tra le grandi vetrine. E proprio Montanelli è una figura chiave nella vita di Mazzuca e tutt’oggi a distanza di molti anni dalla morte lo ricorda con affetto e venerazione, ringraziando il buon Dio di avergli dato l’opportunità di conoscere, vivere e scrivere con il più grande dei direttori del ‘900.

Le mancano i tempi in cui era direttore?

È chiaro che mi mancano quei tempi. A parte il fatto che allora non c’era proprio la crisi di vendite dei giornali come oggi, stare a fianco di Indro era, ogni giorno, una palestra di vita.

A quale grande personaggio del giornalismo Montanelli ha cercato di ispirarsi durante le sue direzioni?

Montanelli era molto legato a Leo Longanesi che considerava il suo vero maestro e forse io ho fatto tanta carriera a fianco di Indro perché sono romagnolo come lo era Longanesi e gli assomigliavo un po’ ma non certo fisicamente.

Come è stato lavorare a fianco di Montanelli al Giornale? Che tipo di direttore era?

È stato un grandissimo maestro. Lui ci diceva sempre di essere un direttore-bandiera che si issava alla mattina sul pennone e si ammainava alla sera, ma in realtà era un direttore onnipresente che controllava sempre gli articoli più importanti e delicati. Lavorare a fianco a lui mi è servito ad imparare ogni giorno qualcosa di più.

Ricorda l’episodio in cui Montanelli ricevette la proposta di Cossiga di nominarlo senatore a vita?

Ricordo l’episodio perfettamente. Una mattina, alla riunione dei capi-servizio, disse che un’ora prima l’aveva chiamato il presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che gli aveva proposto di volerlo nominare senatore a vita. Lui, ringraziando il presidente, aveva declinato l’offerta molto gentilmente perché si sentiva un giornalista, solo un giornalista, e voleva restar fuori dal Palazzo. Poi, abbassando un po’ il tono della voce perché stava raccontando un  segreto, aggiunse che, qualche minuto dopo la telefonata del Capo dello Stato, l’aveva chiamato il “suo amico Giovanni” (Spadolini con cui era legatissimo anche se avevano caratteri molto diversi) che gli chiese se cortesemente potesse richiamare Cossiga proponendogli, in alternativa ad Indro, il suo nome come senatore a vita. Due grandi amici ma con temperamenti ed ambizioni molto diversi.

Montanelli oltre ad essere il principe dei giornalisti italiani fu anche un grande storico?

È stato un grande storico perché riusciva a farsi capire da tutti con il suo linguaggio giornalistico molto semplice e chiaro. Ha scritto libri storici prima con Roberto Gervaso e poi con Mario Cervi. La prima stesura dei libri veniva fatta dai colleghi, poi lui riguardava i manoscritti ed interveniva sui testi. Come ci diceva, ci metteva il “Sidol”, cioè li abbelliva.     

E dal punto di vista storiografico cosa lo distingueva da Spadolini?

Spadolini, che era anche professore universitario, era un vero storico: i suoi libri erano sempre molto documentati ma non sempre di facile lettura. Montanelli è, invece, sempre stato un grandissimo giornalista. Anche nei suoi libri di storia.

Nel ’94 lasciò il Giornale per fondare La Voce. Che esperienza fu e perché fallì?

Montanelli non ha mai rotto con Berlusconi, che considerava anzi il migliore degli editori perché aveva sempre rispettato totalmente l’indipendenza del proprio direttore. È chiaro quindi che Montanelli, da un punto di vista solo formale, si sentì condizionato dal fatto che il proprio editore era diventato un leader politico e quindi lasciò. I due, comunque, continuarono a stimarsi anche successivamente. Insomma, non ci fu un vero divorzio politico tra Berlusconi e Montanelli, come dissero molti commentatori d’allora. La Voce, il nuovo quotidiano di Montanelli, fallì perché Indro si illuse di poter costruire un azionariato diffuso senza un editore di riferimento: un progetto che in Italia non ha mai avuto successo.

Come mai Montanelli scelse proprio lei come suo vicedirettore alla Voce?

Mi stimava molto come giornalista economico mentre lui mi diceva sempre di saperne poco in materia. Mi voleva bene come un figlio e, quasi ogni sera, mi portava a cena da “Alfio” dove mi raccontava le sue storie affascinanti. Poi tornavamo in redazione per la chiusura notturna del giornale.

Quale rapporto riuscì a costruire con Montanelli e qual è stato il suo più prezioso insegnamento?

C’era una grande confidenza tra noi anche se io continuavo a dargli del “lei” chiamandolo “Direttore”. Il suo grande insegnamento: essere sempre, per quanto possibile, un giornalista libero e indipendente. Mi diceva che, per farsi capire dai propri lettori, bisognava sviluppare un solo concetto nei propri articoli.

Pensa che l’Italia sia orfana di Montanelli?

Sono convinto che l’Italia sia ancora oggi orfana di un giornalista con l’obiettività, l’indipendenza, l’autorevolezza, la chiarezza e la semplicità nel linguaggio di Montanelli. Indro ci mancherà per sempre.

Come lo definirebbe in una sola parola?

Controcorrente.

1 commento

  1. Questo mi fa capire (anzi, mi conferma) quanto fosse deficiente Montanelli.

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