Davide Zilli è prima di tutto un pianista classico che ama il jazz e il cantautorato che non si prende sul serio. Compositore colto, saltimbanco della parola e intrattenitore irriverente, nei suoi album mette in musica storie di clamorose frustrazioni amorose (le sue), lauree fuori corso (tipo la mia) e congiuntivi che diventano pezzi da museo. Durante i suoi spettacoli ama indossare una maschera da verro. In giacca e cravatta.
Dunque, i tuoi testi spesso e volentieri raccontano la provincia italiana, un mondo piccolo popolato da personaggi tanto improbabili quanto concreti. Cosa ti spinge a cantarne le bellezze e le debolezze?
Forse il fatto che in provincia, viste le piccole dimensioni di ogni cosa, l’umanità risulta più osservabile nelle sue componenti minime, è come se ogni fattore umano, bello o brutto, fosse più puro e meglio descrivibile, mentre fra le distrazioni offerte dalla metropoli risulta in qualche modo più diluito.
Oltre al mestiere di cantautore puro so che sei molto attivo nella scena del cabaret milanese. Quali sono i punti di contatto fra i due settori?
Possono essere infiniti, ovviamente a patto di non considerare per forza il cantautorato come qualcosa di serioso a prescindere. Le canzoni si possono suddividere tra quelle che rispecchiano il mondo così com’è, e quelle che cercano di reagire. Ecco, credo che l’ironia, nel cabaret e nella canzone, sia un’ottima arma per riflettere anche sulle cose più atroci senza crogiolarsi nella malinconia o nella disperazione, come fanno molti, ma provando a tirare avanti.
La mattina professore di italiano e la sera chansonnier sui palchi di mezza Italia con i Jazzabbestia, la tua
band. Come riesci a tenere in piedi le due cose? Hai un sosia?
Mi viene abbastanza naturale, la cattedra a suo modo è un palcoscenico: a scuola ho imparato cose utili per il palcoscenico e viceversa; per il resto amo guidare e compongo principalmente in auto, quindi ho fatto di necessità virtù.
Con il tuo singolo Coinquilini hai vinto a mani basse Musicultura 2018, un’importante manifestazione musicale prodotta dalla Rai che si è tenuta nella splendida cornice dell’Arena Sferisterio di Macerata. Svariati artisti che sono passati da lì poi hanno fatto strada, Sanremo anche…Che cosa bolle in pentola? Forse un talent in tutina azzurra?!
La tutina l’ho già provata ma mi sta malissimo, e sospetto anche di essere troppo peloso per questo genere di cose. Al momento comunque sto registrando il mio terzo album che uscirà in primavera, e ci sono alcuni progetti per i prossimi mesi, ma non posso ancora parlarne. Senti come suona misterioso?
Torniamo alla provincia. Sei un piacentino che vive a Parma con un trascorso liceale in quel di Cremona. A tuo modo un cosmopolita. Milano, su cui hai scritto un riuscitissimo pezzo Funny Milano, cosa rappresenta per te?
Anche se molti la denigrano, Milano è meravigliosa. Non è una città che si concede subito e le sue numerose bellezze sono più nascoste che in altre città, ma appunto per questo la ami ancora di più quando riesci a carpirne qualcuna. E poi ha un respiro europeo, non è un caso che l’Illuminismo italiano abbia preso le mosse da qui. Ci si lamenta dei suoi ritmi consacrati alla produzione, ma appunto per questo ritagliarsi un po’ di bellezza in mezzo agli ingranaggi del lavoro diventa ancora più prezioso: è come una bellezza al quadrato.
Raccontaci un episodio Off della tua carriera. A forza di frequentare musicisti ne avrai viste d’ogni…
Potrei raccontarne a decine. Quello che mi viene in mente ora è il post concerto di un venerdì sera a Vercelli, molti anni fa. Iniziammo a suonare a mezzanotte, non ricordo perché. Finimmo alle due e ci mettemmo in viaggio. Guidavo io, ma mi persi nella nebbia, finendo per arrivare a casa alle 7.30 del mattino. Alle 8 avevo lezione a scuola, così andai esattamente com’ero, macilento, ancora in giacca e cravatta, e con tutta la puzza che un locale e un live ti possono lasciare addosso. All’epoca mi vergognavo un po’ della mia doppia vita e agli studenti non dissi nulla. Semplicemente, invece di girare tra i banchi come faccio sempre, me ne stetti sempre alla cattedra cercando di non collassare e sperando che non si accorgessero di come ero messo. Poi però uno studente notò sulla mia mano uno di quei timbri che ti fanno come lasciapassare per entrare e uscire dai locali, e proruppe in un «abbiamo fatto baldoria ieri, eh prof?».