“Stavo per rifiutare quella chiamata…ed era Marco Tullio Giordana!”

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Alessio Praticò, Ph Alessandro Rabboni

«La fiction lavora sullo stereotipo – quindi il buono sarà buono e lo stesso vale per il cattivo –, mentre la serie tv fa emergere le sfumature. Raccontiamo esseri fallibili, che compiono errori, azioni positive e negative». Siamo partiti da qui con Alessio Praticò, attualmente in onda nella serie di successo  Il Cacciatore su Rai Due per la regia di Stefano Lodovichi e Davide Marengo nei panni di Enzo Brusca, ex mafioso e collaboratore di giustizia, per percorrere con lui le tappe realizzate fino ad ora, anticipando progetti futuri e desideri.

Come si fa ad affrontare un personaggio pieno di contraddizioni senza  giudicarlo?

Secondo me è molto stimolante, perché hai la possibilità di lavorare su tante corde dell’essere umano. Nel caso di Enzo Brusca si può riscontrare il suo non sentirsi considerato dal fratello maggiore, il quale lo pone in secondo piano sia perché non si fida delle potenzialità “balorde” del fratello, sia per proteggerlo. Questa situazione genera un conflitto, scaturito anche dal suo sentirsi completamente nell’ombra di Giovanni. Al di là di questo potremmo dire che, proprio come personaggio, si sente un pesce fuor d’acqua. Lui, ai processi, ha dichiarato che il contesto in cui è nato sicuramente non ha aiutato, raccontando un aneddoto relativo a un Carnevale, in cui si era travestito da poliziotto e il padre lo prese a schiaffi. Brusca ha affermato, quindi: “sono nato in una famiglia dove mio nonno era mafioso, mio padre era mafioso, mio fratello idem, io che cosa potevo fare se non continuare per quella strada?”. Sembrerà paradossale, però rispetto a tutti i personaggi negativi che vengono rappresentati nella serie, lui è uno di quelli che si è pentito fino in fondo.

L’approccio migliore è quello di non giudicare il personaggio, l’attore non deve mai farlo, sbaglierebbe in partenza. In casi come questo bisogna portare avanti il modus operandi del personaggio: per lui, fare tutto quello che gli viene chiesto dal fratello è giusto.

Tu non hai avuto modo di incontrarlo?

No, ma so che sta conducendo una vita normale, non avendo più nulla a che fare con quella precedente all’arresto.

È stata una scelta?

Non è stato possibile incontrarlo e poi credo che nel lavoro che deve compiere l’attore ci debba essere una componente creativa. Il Cacciatore è una storia che prende spunto da fatti reali, ma chiaramente è un po’ romanzata, non c’è la necessità di dover raccontare chi è veramente, nel profondo, Brusca.

Cosa ti ha colpito, d’istinto, della sceneggiatura?

Ho notato immediatamente come ci fosse la volontà di fare qualcosa di diverso, raccontare un periodo storico poco conosciuto (gli anni che vanno dal ’93 fino al ’96-’97, dopo la strage di Capaci  e via d’Amelio). Leggendo la sceneggiatura sono rimasto piacevolmente colpito perché era evidente la ricerca dal punto di vista della narrazione, con l’intento di far emergere anche l’umanità dei personaggi senza scadere nello stereotipo del mafioso o del cattivo. In più, per la prima volta, ho avuto a disposizione un coach palermitano, Enrico Roccaforte, che ci ha seguiti sia nella fase preparatoria sul set: ci ha aiutati moltissimo sul piano del linguaggio – i fratelli Brusca parlano il palermitano della provincia – offrendoci anche un contributo dal punto di vista antropologico, facendoci comprendere come pensa, ad esempio, il palermitano.

Personalmente amo scoprire linguaggi e dialetti ed è stata pure un’occasione per conoscere meglio Palermo.

Alessio, prima accennavi all’aneddoto di Brusca da cui traspariva come non si possa scegliere dove nascere. Tu hai origini meridionali e, forse, cogli ancor più certi elementi: secondo te si può decidere dove e come vivere? Te la sei posta come domanda rispetto a te stesso?

Ogni scelta è personale, bisogna avere una grossa forza. Io sono di Reggio Calabria, sono nato in un territorio che è stato, in passato, un territorio caldo da quel punto di vista. Credo che dipenda sempre dai genitori e dalla fortuna di vivere in determinati contesti che ti educano al bello. Anche la scuola è fondamentale: deve insegnarti a saper discernere ciò che è giusto o meno, poi certo sta a te sapere selezionare.

Mi viene in mente questo aneddoto, quando a Milano giravamo Lea (il film tv diretto da Marco Tullio Giordana sulla vicenda di Lea Garofalo – interpretata dalla bravissima Vanessa Scalera -, testimone di giustizia assassinata dall’ex-fidanzato mafioso, Carlo Cosco , n.d.r.), proprio nel quartiere dove loro hanno abitato – io interpretavo Cosco. Ricordo che si avvicinò una signora, che disse proprio queste parole sul compagno di Lea: “era disponibilissimo nel darci una mano, una brava persona“. Ho ancora la pelle d’oca a ripensarci. Stupisce che una persona come lui venisse considerata come qualcuno che aiutava gli altri, è un paradosso, ma sussiste questo atteggiamento, tanto più al Sud, forse perché, in particolar modo in passato, è mancata la presenza forte dello Stato e le persone si affidavano all’anti-Stato. Questo elemento, nel Cacciatore, viene reso attraverso il personaggio interpretato da Paolo Briguglia, che non ha nulla a che fare con quel mondo, ma non avendo un lavoro, diventa autista di un boss – Bagarella (David Coco), n.d.r. – entrando in quel giro perché deve portare i soldi a casa avendo una moglie e un figlio.

Ho avuto modo di vedere Sradicati, il corto girato da te in cui racconti di Roghudi Vecchio, delle alluvioni e del nuovo centro denominato Roghudi Nuovo. Che valore hanno, per te, le radici?

Per quanto mi riguarda sono molto importanti e le porto sempre con me. Ho lasciato la mia città a venticinque anni per frequentare la Scuola del Teatro Stabile di Genova. All’inizio ho avvertito molto la mancanza delle piccole cose, compresi suoni, luoghi, odori. È una sorta di odio e amore, molto spesso, quando torno, mi innervosisco perché magari constato ancora come ci siano degli aspetti che non vanno bene. Dalle mie parti, ahimè, sussiste un atteggiamento di immanenza, come se il destino fosse segnato e non si potesse cambiare e questo mi fa molto arrabbiare, infatti, Sradicati nasce, in parte, da questo spirito. Conoscevo la provincia di Reggio, ma non vi ero mai stato fisicamente,  per cui, mosso da questa curiosità, insieme ad altri amici abbiamo visitato i paesi dell’area grecanica. In questo tour sono rimasto molto colpito quando siamo giunti a Roghudi, avvertendo il forte desiderio di raccontare questa storia. Il corto è auto-prodotto totalmente da me.

Pensando alle giovani generazioni, a tuo parere, c’è, in loro, il valore delle origini?

Mi auguro di sì, anche se lo stesso Carmelo Toscano nel corto denuncia come non ci sia più un attaccamento alle origini, che non è sinonimo di chiusura, anzi, dovrebbe essere visto come apertura e confronto verso tutto ciò che ci circonda. Non voglio fare il moralista, però ciò che è attorno sembra trasparente o scontato, siamo sempre attaccati ai cellulari: vicini con le persone lontane e lontani da chi, invece, è accanto.

La frase di Cesare Pavese (posta a conclusione del corto, n..d.r.) è l’emblema di quello che è il mio legame con il territorio: “un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti“.

Il Cacciatore, ph Floriana Di Carlo

Tenendo conto di alcune scelte come quella di aderire a una serie come Il Cacciatore o Lea, traspare una certa responsabilità…

Adesso sono abbastanza abituato a questo genere di responsabilità, ma ricordo che, quando Marco Tullio Giordana mi chiamò per comunicarmi che ero stato preso per realizzare il film, chiaramente ero felicissimo; però non nego che ho nutrito un po’ di timore quando mi ha detto che avrei dovuto interpretare Carlo Cosco. In entrambi i casi ho sentito la responsabilità di dover fare un ottimo lavoro, è un approccio che ho sempre, in circostanze simili l’avverto ulteriormente.

Mi piace rintracciare il lato umano di queste persone e spero si evinca. Se pensiamo a Cosco, chi non conosceva come si fosse evoluta la storia nella vita vera, fino all’ultimo ha pensato che fosse innocente, cogliendo i suoi sentimenti d’amore verso la figlia (resa dall’attrice Linda Caridi, n.d.r.). Secondo me questo conferisce più spessore al personaggio, facendo emergere ancor più il lato “spaventoso”.

Ricordando la nostra storia del cinema, quanto hai seguito un cinema di impegno di civile com’è stato quello di Rosi e Petri?

Penso che bisognerebbe riprenderlo quel tipo di cinema, ma semplicemente perché ritengo che la Settima Arte insieme al teatro possa far ridere e far piangere contemporaneamente in quanto raccontano la vita in una chiave tragicomica se pensiamo alla Commedia all’italiana. Se ci riferiamo, nello specifico, ai film di impegno civile, non fanno altro che essere specchio del genere umano, a mio parere possono far divertire e al contempo far aprire la mente allo spettatore; bisogna sfatare l’idea che queste opere siano noiose.

Assodato che ci sono dei cicli storici; credo che oggi ci sia una fruibilità diversa, spesso alcuni temi vengono affrontati nelle serie. Per portare un esempio legato a Lea, di recente, insieme a Vanessa e alla sceneggiatrice Monica Zapelli, lo abbiamo accompagnato in una scuola media poiché un docente aveva organizzato un cineforum e sono rimasto davvero impressionato dagli studenti, sinceramente interessati all’argomento, ma anche incuriositi sul piano tecnico. Sono iniziative fondamentali, la scuola deve stimolare la mente dei ragazzi, altrimenti si crea solo un meccanismo di frustrazione continua che dall’insegnante – che magari non si sente valorizzato – passa ai ragazzi, i quali non si sentono incentivati a impegnarsi.

Alessio Praticò, Ph Alessandro Rabboni

Alessio, raccontando ai nostri lettori i tuoi esordi, come mai dopo gli studi di architettura hai voluto intraprendere il percorso attoriale?

Fin da piccolino ho avuto la fortuna di frequentare una scuola dell’infanzia che curava molto l’aspetto artistico e già a cinque-sei anni ho preso parte al mio primo spettacolo e mi si è aperto un mondo. Se riguardo le foto di allora, si notano proprio i miei occhi luminosi e appassionati. Ho coltivato questa passione fino alle medie, si è un po’ sopita durante il liceo perché ero in una classe di “scalmanati” e solo l’ultimo anno ho scoperto che, da noi, non passavano le circolari dell’esistenza di un laboratorio teatrale.

Dopo il diploma si è presentato il bivio; i miei genitori velatamente mi hanno consigliato di proseguire gli studi e di ciò che mi sarebbe interessato approfondire, architettura era quella principale. Contemporaneamente ho frequentato il laboratorio teatrale universitario diretto da Renato Nicolini e Marilù Prati. Devo dire, però, che esistono tante affinità tra architettura e arte drammatica e soprattutto realizzare un percorso accademico ti aiuta ad avere una mente allenata e aperta a un’impostazione di costruzione, organizzazione e stabilità mentale e me la porto con me nel lavoro attuale. Come in architettura progetti un edificio in base alle funzioni che deve avere, lo stesso vale per il personaggio a cui devi dar volto e interviene la parte creativa ad arricchire e personalizzare il tutto.

Certo, sarò sincero, ho anche sofferto molto durante l’università poiché avevo sempre il timore di non riuscire ad entrare in una scuola di recitazione entro una tot età; in realtà questo mi ha dato la spinta per andare come un treno. A venticinque anni mi sono laureato e lì mi sono detto e ho detto ai miei che ci tenevo a portare avanti questa passione, ho sostenuto dei provini di ammissione e sono entrato allo Stabile di Genova, tra l’altro la scuola che desideravo fortemente frequentare. Lì è partito tutto in maniera più professionale. Adesso capita spesso che sono i miei a confortarmi, incoraggiandomi nei momenti magari di difficoltà.

A proposito di teatro, ne hai fatto tanto, stai valutando a breve di tornarci?

L’ultimo lavoro l’ho portato in scena tra la fine del 2016 e gli inizi del 2017. Si trattava di una  dimostrazione del corso di Alta Formazione al Teatro Due di Parma, dove abbiamo rappresentato The Beggar’s Opera di John Gay, dove interpretavo Lockit.

Ad ogni modo ritornerò presto in teatro, ma da regista. Stiamo preparando un testo inglese, tradotto da un mio amico e collega. Innegabilmente oggi, tanto più se non hai alle spalle una produzione grossa, non è facile portare avanti un progetto legato a drammaturgie nuove e contemporanee.

Tutto è nato da questo mio amico – anche coinquilino – il quale ha trovato questo testo di Nick Payne a Londra e mi ha proposto di curarne la regia. In scena ci saranno un uomo e una donna. Tramite una nostra amica, Marisa Grimaudo, anche lei formatasi allo Stabile di Genova, siamo riusciti ad avere una residenza artistica a maggio presso il Teatro di Villazzano (TN), dove lo allestiremo per poi realizzare una replica nella speranza che lo spettacolo possa interessare e trovare canali produttivi e distributivi.

Mi auguro anche che potremo riprendere Fratelli di sangue, sono innamorato di quello spettacolo per il tema che tratta (la malattia mentale) e per il modo in cui lo fa (era stato in scena anche all’Elfo Puccini di Milano all’interno del focus sulla drammaturgia internazionale, n.d.r.)

Alessio Praticò, Ph Alessandro Rabboni

Prendendo spunto da un altro tuo lavoro attualmente in onda (su Sky Atlantic HD dal 28 marzo), Trust – il rapimento Getty di Danny Boyle, tra i temi trattati ci sono il potere e il denaro. Quali sono le tue ambizioni e qual è il limite che ti sei posto?

Potrebbe risultare “strano” e probabilmente banale, ma la mia ambizione, in questo momento, è riuscire a poter vivere del mio lavoro. Ci sono diversi attori bravissimi che non hanno ancora avuto la possibilità che magari sto avendo io. Certo spero, in futuro, di poter avere l’opportunità di fare o non fare una cosa.

Per quanto riguarda il limite da non oltrepassare direi i deliri di onnipotenza, non li sopporto, mi fanno ridere quando li riscontro in alcuni colleghi poiché ritengo che ci debba essere un’etica nei confronti della professione che facciamo. Noi raccontiamo storie di uomini ad altri uomini, dobbiamo metterci al servizio delle storie e dei personaggi, tutto il resto non è importante; invece capita spesso che si è più attori quando non si lavora. È una questione sempre soggettiva, connessa all’educazione, a come vedi la vita e ti rapporti con gli altri; personalmente tengo molto al rispetto del lavoro che si compie e di chi lo fa con te, dagli artisti alle maestranze.

Che ruolo hai in questo lavoro?

Interpreto un contadino, che fa da tramite con la popolazione del paese ed è connesso al rapimento  [ma non aggiungiamo troppo per chi non ha ancora visto le puntate].

Alessio, martedì 8 maggio debutterà su Sky Atlantic e Sky Cinema1 un’altra serie molto attesa, Il miracolo, tratta da Niccolò Ammaniti, il quale ha esordito per l’occasione davanti alla macchina da presa per alcuni episodi (co-diretta con Francesco Munzi e Lucio Pellegrini). Ci può anticipare qualcosa?

Ne vado molto fiero, sono uno dei protagonisti delle storie a incastro che vedrete. Penso che sia un lavoro davvero diverso rispetto a tutto ciò che è stato fatto fino ad ora in Italia, in quanto ha una narrazione distopica con elementi fantasy, mistery, drama, con atmosfere alla Lynch come afferma Daniele Ciprì, il direttore della fotografia.

Ne Il Miracolo interpreto un “buono”, un giovane padre di famiglia calabrese, il quale deve affrontare una prova abbastanza complessa . La storia ruota attorno al ritrovamento di questa statuetta della Madonna, che piange sangue ininterrottamente e si crea un caso, celato all’opinione pubblica.

Spesso si evidenzia come Sky abbia aperto delle strade nuove rispetto alla serialità, assumendosi pure dei rischi, tu cosa ne pensi?

Ritengo sia abbastanza normale, Sky è una tv privata molto libera ed è giusto che realizzi quello che, secondo gli ideatori, è un prodotto di qualità per cui se si deve spingere, andando oltre i canoni e smontando il perbenismo, lo fa.

Devo dire che Il Cacciatore, dal canto suo, ha sdoganato un po’, alcuni hanno commentato, infatti, come un prodotto così ce lo si sarebbe aspettato più su Sky o Netflix, non su RaiDue.

Concludiamo quest’intervista con una nostra domanda topica: qual è l’episodio OFF del tuo percorso di vita professionale e/o umana?

Mi viene in mente questo episodio legato a Lea. Ero a Genova, si era rotto un tubo per cui venne l’idraulico, ad un tratto squillò il cellulare, ma da un numero non in memoria ed ero già pronto a chiudere la telefonata temendo fosse qualcuno che voleva proporre offerte e promozioni. Quando ho risposto, dall’altro capo del telefono c’era Marco Tullio Giordana, per cui presi tempo con l’idraulico. Mi viene in mente la frase secondo cui la vita è tutto ciò che ti accade quando meno te lo aspetti.

Un altro aneddoto che, secondo me, descrive anche l’empatia che deve esserci tra chi fa questo mestiere riguarda Fratelli di sangue. L’ultimo giorno prima del debutto a Genova, eravamo molto tesi, ma quel giorno mi misero l’ultimo callback a Milano per Antoni(l’opera prima di  Ferdinando Cito Filomarino su Antonia Pozzi, n.d.r.). Ne parlai con Mauro (Parrinello, il regista, n.d.r.) e lui fu molto disponibile dicendomi: “ti chiedo una cosa: fatti prendere” e ho mantenuto la promessa.

Durante la presentazione de Il Cacciatore a Canneséries (unica serie italiana selezionata per la prima edizione del festival internazionale delle serie tv nel Palais des Festival) è stato annunciato che verrà realizzata la seconda stagione.