Chi è Fabio Rovazzi? Uno youtuber da milioni di visualizzazioni, un cantante da ben undici dischi di platino (senza aver mai pubblicato un album), un attore in erba (dal 18 gennaio nelle sale cinematografiche con il film Il vegetale, distribuito da The Walt Disney Company).
La carriera di Rovazzi inizia sul web, realizza sketch per Youtube e si confonde, senza eccessiva fatica, in mezzo a centinaia di altri giovani youtuber come lui, a proprio agio davanti alla telecamera di uno smartphone e pronti a inondare i social network di brevi video comici, spesso ironici e dissacratori.
Ma il successo, per il giovane milanese, arriva nel 2016, quando pubblica la hit estiva Andiamo a comandare, che – ad oggi – è stata certificata cinque volte disco di platino. Seguono Tutto molto interessante e Volare, che lo vede collaborare al fianco di Gianni Morandi. E adesso tocca al cinema: dal 18 gennaio, come anticipato, Rovazzi sarà il protagonista de Il vegetale, un film di Gennaro Nunziante.
Sorge spontaneo porsi una domanda: ma Rovazzi è un artista? È difficile trovare una risposta che non finisca per scontentare qualcuno. Rovazzi è figlio di questi tempi, è incontestabile, questa è la sola verità che esista. E ne è persino l’emblema.
Mi amareggia ammetterlo, ma la nostra società – compromessa com’è – permette un fenomeno per me inconcepibile: consente a chiunque di improvvisarsi artista.
Chi nasce youtuber, può ritrovarsi tra gli scaffali di una libreria o in cima ad una classifica di hit, su uno schermo cinematografico o su un’isola deserta.
E quando parlo di prodotti – se serve ancora chiarirlo – non mi riferisco affatto a oggetti materiali, ma a persone. Rovazzi è un prodotto perfetto: ha un imponente seguito sui social, quindi è spendibile sul mercato, lo dimostra il successo dei suoi brani, primi in classifica per settimane intere, e lo dimostrerà – ne sono convinto – il film che, tra pochi giorni, lo vedrà protagonista.
Artisti si nasce e non si diventa, un’arte può essere perfezionata ma non certamente improvvisata: questa convinzione muore inesorabilmente quando Rovazzi (o chi come lui) diventa uno dei nomi più richiesti e passati dai network radiofonici.
È evidente ci sia qualcosa che non va, una lacuna – alla base – da risanare quanto prima. Lo dimostrano queste parole di Rovazzi: «In quarta superiore ho abbandonato la scuola, scelta che mi ha permesso di sperimentare strade più mie. Se vai a un colloquio e nella valigetta hai quattro buone idee, a nessuno frega niente del titolo di studio o dell’Academy che hai frequentato. Quello è sempre stato il mio bagaglio e finora ha funzionato».
È avvilente constatare che, nel nostro Paese, funziona esattamente così. Ma un messaggio del genere non può e non deve passare, non può e non deve arrivare ad una generazione compromessa come quella che fa – di Rovazzi – un punto di riferimento, un idolo e un esempio da emulare. E, sia ben intenso, è dell’artista che parlo, del prodotto, del fenomeno, del personaggio, chiamatelo come vi pare, mi riferisco a quello che di lui è stato fatto. Studiare è fondamentale, tanto quanto avere una buona intuizione, un talento naturale e discreta dose coraggio.
Va bene persino l’ostinazione, ma il successo non è collezionare followers, anche se vogliono farlo credere; non è fingersi qualcosa che non si è; non è nemmeno inventarsi un’arte. È molto pericoloso pensare che basti un account web per costruire una carriera, che basti emulare un tenore di vita per farne parte, che basti improvvisarsi qualcosa per esistere. Essere figli di questi tempi significa appartenere ad un fenomeno di passaggio e, senza troppa cautela, mi sento di dire resterà ben poco. Quasi nulla, a dire il vero.
Un modo per fermare questa miseria esiste ed è sostenere la buona musica, il buon cinema, il buon giornalismo, la buona letteratura, il buon web, perché c’è del buono ovunque, basta saper distinguere un fenomeno da un genio, un prodotto da un talento, l’arte da un’imitazione. Ma temo che il pubblico, diseducato all’arte e assuefatto da quello che gli viene proposto, non sappia più fare una distinzione, credo non ne abbia i mezzi, è impreparato alla scelta, accoglie stancamente quello che riceve, senza averne coscienza.
Chi è, dunque, Rovazzi? Un genio, un fenomeno o soltanto un prodotto? Una cosa è certa: è esattamente il simbolo di questi tempi che corrono, che dimenticano, che improvvisano. Rovazzi è figlio di un’Italia che non ci fa volare.