Chi sostiene che la filosofia è lontana dalla realtà, non l’ha mai frequentata. Basta leggere “Chiaroscuri, figure dell’ethos” di Alessio Musio per capirlo (Vita e Pensiero, pp. 174, € 18). Docente di Filosofia morale in Cattolica, il pensatore nelle figure dell’ethos identifica le figure della libertà dell’umano agire. La complessità dell’uomo è data dal sovrapporsi di queste identità astratte, che in lui si fanno reali: come il segreto, la fiducia, la malafede. Viviamo nell’ambiguità, nell’eterna oscillazione del divenire che non ci lascia mai uguali a noi stessi. Siamo in perenne mutamento: inciampare e cadere è questione di un istante.
“L’intera vita morale deve essere pensata nel segno della verità“, spiega nell’introduzione, scomodando Michelangelo e la tecnica del “toglimento” da lui descritta in un sonetto, secondo la quale per individuare la forma racchiusa nel marmo c’è da scolpirne via l’eccedenza. Procede così anche Musio per individuare, descrivere e valutare quel che c’è e quel che manca nella vita, nella sua potenzialità di essere “riuscita o non mancata“, per dirla con Habermas. L’autore interroga mostri sacri per descrivere il procedere a tentoni dell’umanità alle prese con il nichilismo, che è la negazione della verità, sottolineata dal Nostro con un eloquente corsivo.
Egli dubita che Nietzsche abbia ucciso la verità, perché senza ci è impossibile vivere nel senso più pieno. Quindi chiama in causa Aristotele, Kierkegaard, Sartre, la Arendt della “Banalità del male”. E mai titolo fu più azzeccato, perché il male è banale, sia su piccola che su larga scala. Lo ha raccontato con maestà Dostoevskij nei suoi romanzi, e se c’è della grandezza in questo libro lo si deve anche al riconoscimento dello spessore filosofico dell’opera del russo. Perché Dostoevskij, in particolare con Stavrogin, l’antieroe protagonista de “I demoni”, sancisce il primato della volontà sulla ragione, e quindi l’essenza dell’uomo nel bisogno di una titanica ribellione.
Contro l’ordine immanente, ossia la realtà, ma anche contro il Cristo, che presto sarebbe stato sacrificato sull’altare del dio dei nuovi tempi. In Dostoevskij codesto abisso, in cui l’uomo sprofonda per noia e per l’impulso fatale alla distruzione, è privo di consistenza metafisica, tuttavia ha il potere di distruggere chi ancora dimora nella verità. Stavrogin stupra una bambina e osa definirla consenziente, come se l’innocenza dell’infanzia non fosse neanche lontanamente ipotizzabile dall’aguzzino, maniaco nella misura immensurabile in cui per divertirsi spezza una vita in boccio.
Dostoevskij è crudele, così come lo è la vita. Non la si può affrontare senza conoscerne i tranelli. Perché il male, spiega l’autore citando Vladimir Jankélévitch, spesso proviene proprio dalla noia, quel “delicato mostro” che oggi vediamo furiosamente all’opera intorno a noi. Nelle teste vuote di chi anziché soccorrere un ferito si affretta a filmarlo con lo smartphone o di chi dà alle fiamme un clochard. La noia genera la presenza del male nel mondo, il problema irrisolto che fin dal tempo dei Padri della Chiesa è detto teodicea. Eccolo il male all’opera, in tutta la sua stupidità fatta di assenza di senno, di interessi, soprattutto di coscienza. E poi vallo a spiegare, alle zucche vuote, che se avessero letto qualche libro di spessore, forse non sarebbero idioti al punto di commettere azioni prive di “fondamento metafisico“. Perché essi non sanno che si tratta non di ribellione, ma di banale crudeltà.