Laura Avalle : “L’Italia non è un paese per donne”

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Deva_0038“L’Italia non è un paese per donne” è  una delle ponderate riflessioni che Laura Avalle, giornalista e scrittrice alla sua quinta opera letteraria, sviluppa all’interno di “Vita ti aspetto. L’amore raccontato ad una bambina che sta per nascere.”

Temi come “maternità” e “famiglia” affrontati con calma e fermezza, un testo delicato che invita alla riflessione e che l’autrice ci racconta in quest’intervista.

Sei alla tua seconda opera letteraria. Com’è nata l’idea di questo secondo testo, “Vita, io ti aspetto – l’amore raccontato a una bambina che sta per nascere”?

«Questo è il quinto libro che pubblico, se includiamo anche “Gli ultrasuoni del cuore”, la mia prima raccolta di poesie (un genere a me molto caro). Ma è con “Le altre me” (La Lepre Edizioni, 2015) che sono riuscita a farmi conoscere come scrittrice, un libro che mi ha portato molta fortuna non solo per il grande successo che ha riscosso, ma anche perché, grazie a questo, ho conosciuto mio marito, l’amore mio più grande, che mi ha regalato una figlia. “Vita, io ti aspetto” è dedicato proprio a lei, che si chiama Deva e che adesso ha tre mesi e mezzo. E’ una sorta di pamphlet sotto forma di lettera, così come è stato definito, intimo e universale allo stesso tempo, che ci riguarda tutti e che è nato in maniera molto naturale, durante la gravidanza, pensando e dialogando con quella vita che portavo in grembo».

All’interno del testo parli della difficoltà di essere donna in Italia. Perché sostieni che non sia un Paese per donne?

«Perché c’è una forte concezione patriarcale della famiglia ancora molto radicata e difficile da estirpare, a differenza di altri Paesi europei. Un esempio su tutti la legge sul doppio cognome che è ferma in Parlamento, nonostante il sì di novembre scorso della Corte Costituzionale. Ad oggi, poi, una donna che si scopre in stato interessante ha ancora paura di dirlo al proprio datore di lavoro, specie nel privato, quasi fosse una colpa. Io sono stata fortunata, perché il mio editore ha colto la notizia con grande gioia e mi ha risposto, testuali parole, che le mamme lavoratrici hanno una marcia in più. Ma per molte mie amiche il ritorno in ufficio è coinciso con una bella lettera di licenziamento, mentre quelle che sono riuscite a conservare il posto hanno poi dovuto rinunciare alla carica».

Ti eri resa conto della difficoltà di essere “Donna” in Italia prima della maternità?

«La discriminazione di genere l’ho provata sulla mia pelle già da bambina, quando la gente si sentiva in qualche modo autorizzata a dirmi cosa dovevo e cosa non dovevo fare, in quanto femmina. Purtroppo questo sessismo persiste un po’ in tutti gli ambienti. Per non parlare di certi ambiti, che rimangono ancora dei tabù. Tutti bravi ad autocelebrarsi, a vantarsi di avere una mentalità aperta, eppure ancora oggi, nel 2017, se l’oggetto della “chiacchiera da bar” è una donna attraente che ha avuto molti uomini, la si investe spesso di nomignoli maliziosi e neanche troppo gentili (specie se si tratta di una comune mortale e non di una diva di Hollywood) mentre, a parte inverse, l’uomo acquista in automatico lo status di Don Giovanni. Ma quello che fa più male, a mio parere, è che le maggiori cattiverie arrivano proprio dalle stesse donne che, invece di imparare a fare gruppo, si fanno la guerra l’un l’altra. E’ una cosa di cui ancora adesso non me ne capacito».

Ritieni che si possa fare qualcosa per migliorare in qualche modo a tutte la vita?

«Deve cambiare la mentalità della gente e non è così automatico e facile che accada. Ricordo ancora quando sono andata a vivere a Milano, nel 2001. Avevo ventitré anni e mio padre, che non era felice che andassi via di casa, invece di augurarmi buona fortuna per la carriera da giornalista che volevo intraprendere, mi augurò di trovare presto un uomo per sposarmi e fare una famiglia, perché quello, secondo lui, è il vero il destino di una donna. Ho provato a farlo ragionare sul fatto che è sicuramente un aspetto importante (per entrambi i sessi), ma che allo stesso tempo è giusto e legittimo avere altre aspirazioni. Non c’è stato nulla da fare: per lui avevo solo grilli per la testa. Eppure non mi sento di fargliene una colpa, benché mi abbia ferita, perché quello è stato l’esempio con il quale è cresciuto. Sono ancora in tanti a pensarla così, molti dei quali appartenenti alla sua generazione. A parte questo aneddoto, però, quello che trovo allucinante è che una donna, a parità di competenze e di studi, guadagni generalmente meno di un uomo. Dove sta il diritto di uguaglianza e di parità, se il lavoro svolto da una donna è ritenuto inferiore rispetto a quello svolto da un uomo? C’è ancora tanta strada da fare, ma non dimentichiamo che i cambiamenti partono da noi. Il fatto che nascano bambini dovrebbe interessarci tutti, visto che in Italia ci sono più persone anziane che giovani. Dove pensiamo di andare se si va avanti così? Bisognerebbe incoraggiare le coppie a fare figli, non ostacolarle. Ad esempio contribuendo ad accollarci tutti quanti il costo della maternità, in modo che non sia solo il datore di lavoro a pagare. Istituire in altre parole una nuova tassa, in modo da “pagare tutti per pagare meno”. Lo so, la parola tassa non piace a nessuno, eppure non abbiamo molta scelta: chi pagherà un domani le nostre pensioni, in mancanza di un cambio generazionale?».

Perché sembra che in questo Paese ci pongano sempre davanti a scelte “sbagliate”?

«Gli altri di solito ci danno dei consigli, spesso non richiesti, ma siamo noi a fare le nostre scelte. E dobbiamo imparare ad assumercene la responsabilità, senza dare sempre la colpa a terzi».  

Sei alla tua prima figlia: come descriveresti l’esperienza di far combaciare una “vita da mamma” a una vita da “donna lavoratrice”?

«Te lo saprò dire a settembre, quando tornerò in ufficio perché adesso sono ancora in maternità obbligatoria. Per mia scelta, però, ho continuato a seguire anche a distanza la linea editoriale dei giornali che dirigo, che sono Vero Salute e Rakam e ho sempre tenuto un filo diretto con la redazione, che sento tutti i giorni. Interessarsi di quello che succede al lavoro mi sembra il minimo, soprattutto se si tratta del lavoro dei tuoi sogni per il quale hai sudato tanto. Il resto si chiama coerenza, valore che vorrei insegnare a mia figlia dal momento che una mamma, a mio avviso, dovrebbe essere una persona completa e non definirsi solo in termini di maternità. Mi rendo conto che non è sempre facile far conciliare famiglia e lavoro e sono consapevole che non lo sarà neanche per me, ma si cerca di fare il proprio meglio, consapevole che le Superdonne non esistono e scrollandosi di dosso inutili sensi di colpa».

Laura Avalle
Laura Avalle

Cosa vorresti trasmettere a tua figlia? Che tipo di amore le racconti?

«Vorrei insegnarle l’amore, quello vero, che non ha niente a che vedere con la violenza, a battersi contro le ingiustizie, a maturare una propria personalità e imparare a difenderla. Non essere quello che gli altri si aspettano che lei sia».

La storia d’amore con tuo marito fino alla nascita di tua figlia Deva, sembra una favola. Dobbiamo quindi ri-iniziare a crederci?

«Secondo me bisogna crederci sempre, ma non fissarsi troppo. Lasciare che il destino faccia il suo corso e aspettare che i tempi siano maturi. Vale in tutti i casi: quando una persona si fissa troppo su una cosa perché accada, puntualmente non succede mai niente. Invece, non appena se ne dimentica o la mette da parte senza aspettarsi nulla, ecco che quello che sembra ormai impossibile diventa possibile».