100 anni dopo: la vera storia del water di Duchamp

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Siamo soliti pensare che l’arte moderna nasca con l’avvento delle Avanguardie, sebbene si discuta ancora se nel 1909 sia venuto prima il Futurismo o il Cubismo. Per l’arte concettuale invece non ci sono dubbi: l’anno di fondazione è il 1917. Per l’esattezza il 10 aprile 1917, giorno dell’apertura, a New York, della mostra curata dalla Society of Indipendent Artist nelle sale del Grand Central Palace sulla Lexington Avenue. E in cui avrebbe dovuto essere presentata la “Fontana” che Duchamp, membro della stessa società organizzatrice, aveva inviato al comitato direttivo sotto false generalità; un orinatoio di porcellana bianca, firmato R. Mutt, che non verrà esposto – perché reputato poco consono – e che in seguito andrà perso, ma che comunque diventerà l’opera capace di cambiare radicalmente la storia dell’arte.

Duchamp, sprezzante filosofo, algido donnaiolo, grande scacchista (fu capitano della squadra nazionale francese), carismatico e geniale “anartista” per autodefinizione, con un gesto Dada innalza il readymade (l’oggetto già fatto), a opera d’arte seguendo un semplice ragionamento: è l’artista che determina l’artisticità di un oggetto, scegliendolo tra altri, firmandolo, decontestualizzandolo dalla sua originaria collocazione, ricollocandolo in un museo o in una mostra, prediligendone l’aspetto formale (ma non estetico) a quello funzionale. La vicenda, all’apparenza semplice, ha però risvolti che andrebbero raccontati anche solo nel vano tentativo di comprendere perché agli albori dell’arte contemporanea ci sia un orinatoio e da lì discenda una infinita teoria di water e marchingegni simili, perché in fin dei conti dopo cento anni esultiamo ancora di fronte all’arte escrementizia.

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Duchamp era sbarcato in America due anni prima, nel giugno del 1915. Riformato per un soffio al cuore, aveva lasciato Parigi sotto assedio, e raggiunto il Nuovo Mondo. A New York si era subito integrato con un gruppo di artisti bohémiens. Usiamo il termine francese non a caso. Mentre l’Europa era impegnata in un’insensata guerra fratricida, e i giovani intellettuali di ogni nazione s’impegnavano volontari al fronte, alcuni di loro morendo – dai futuristi a Jünger, da Ungaretti ad Apollinaire, da Kokoschka a Georges Braque, da Kirchner a Derain – negli Stati Uniti gli echi dei massacri arrivavano attutiti. La vita nel Grenwich Village proseguiva spensierata tra una sbornia e l’altra, e la bohème, appunto, sembrava aver traslocato da Montmartre direttamente alla casa di Louise e Walter Arensberg sulla 67th street, in quegli anni uno dei salotti più vivaci dell’intellighenzia newyorkese dove si riuniva un mix stravagante di artisti, scrittori, attrici, commedianti. Gli Arensberg erano collezionisti e mecenati, ben disposti a prendersi cura degli europei in esilio come Duchamp, Picabia, Varèse, Henri-Pierre Roché. Tra questi spiccava la nobildonna tedesca Baroness Elsa von Freytag-Loringhoven, poetessa bisessuale, artista dadaista, musa e modella, una delle personalità più eccentriche di quegli anni, che le foto d’epoca ritraggono in costumi e maschere degne di un perenne carnevale, gli occhi spiritati alla Greuze, lo sguardo scavato e folle, le piume in testa, i capelli tinti di viola. E su cui torneremo.

Duchamp all’epoca trentenne, il cui physique du rôle e magnetismo è innegabile, e che già si portava alle spalle il successo e il clamore del “Nudo che scende le scale”, un quadro cubista rifiutato (guarda caso) al Salon des Indépendants del 1912 di Parigi e poi presentato a New York con grande scandalo all’Armory Show del 1913, divenne subito il motore di questo circolo di avanguardisti tutto sommato disimpegnati e velleitari. La sua proverbiale pigrizia si esaltò nell’invenzione quasi casuale del readymade che non prevedeva fatica creatrice alcuna e che egli stesso definì per quello che era, cioè “niente”. Il primo fu la pala da neve acquistata, con il sodale artista svizzero Jean Crotti, in una ferramenta sulla Columbus Avenue, e poi titolata con somma assurdità “In advance of the broken arm” (Anticipo per il braccio rotto). La cosa gli piacque immensamente, tanto che decise di fare readymade anche a distanza. Scrisse alla sorella Suzanne a Parigi pregandola di prendere lo scolabottiglie che teneva a casa e di aggiungergli una scritta firmandolo: (d’après) Marcel Duchamp. Et voilà, les jeux sont faits.

duchampDalla pala all’orinatoio il passo formale è breve, ma lo slittamento filosofico profondo. Duchamp è convinto che sia necessario negare ogni possibilità di definire l’arte e dà seguito a questo pensiero, una vera ossessione, proprio con il readymade, la cui scelta non è dettata da alcun motivo estetico, semmai da una completa anestesia dei sensi, da una totale indifferenza visiva, dal desiderio di azzerare l’arte sia sul versante della capacità dell’artista di produrla, sia sul versante dello spettatore di goderla. Anzi, la condizione essenziale è che un qualcosa per essere un readymade non debba piacere e neppure dispiacere (altrimenti si rimpiomberebbe sotto la nozione di gusto), bensì “che dal punto di vista visivo non abbia alcun interesse per l’artista”. E così sia. Attenzione: il readymade si differenzia dall’objet trouvé, poiché questo secondo è frutto di una scelta comunque estetica o lirica, il primo invece di una dissoluzione completa di ogni significato e definizione. A ben pensarci, diventa quasi complesso trovare oggetti tanto insignificanti e anodini da non suscitare interesse alcuno o affezione, c’è sempre il rischio di innamorarsi anche delle cose più banali, ed è per questo che Duchamp è fin quasi costretto ad impegnarsi in questa sorta di distanziazione.

Davanti a tanta solida e ostentata professione di nichilismo, appare sorprendente il successo di lungo termine, in generale, del readymade e, nello specifico, di un “anartista” come Duchamp il quale accettò controvoglia perfino la posteriore rivalutazione estetica dei suoi vari “già fatti” che oggi sono – malgré lui – apprezzati nel senso più classico come opere d’arte, peraltro imprescindibili. Non è qui il luogo per cercare di capire e motivare l’approccio nichilista di Duchamp, il suo desiderio di “farla finita con l’arte”, né il contesto filosofico e sociale in cui si mosse l’artista francese, neppure la svalorizzazione dei valori in un secolo, come il Novecento, in cui lo spirito cedeva campo alla scienza, e l’umano soccombeva al disumano. Resta la cosa più incomprensibile, che a seguito della pur motivata ansia di nuovo e di nuovissimo delle varie avanguardie (c’è un comprensibile e giustificabile motivo storico) tutte le discipline artistiche coinvolte nel rinnovamento e nell’ammodernamento siano rientrate negli alvei della tradizione, così il romanzo, la poesia, la musica, la danza, il teatro, mentre l’arte visiva resta esposta a una perenne quanto inutile tentazione avanguardista, incapace di uscire dall’incantesimo del concettuale e dalle sue espressioni più insensate. 

Ma torniamo all’orinatoio e seguiamone passo passo la vicenda. Il 10 aprile 1917 apre al Grand Central Palace sulla Lexingtone Avenue la prima fiera organizzata dalla Society of Indipendent Artists. Il Grand Central Palace è un palazzone, neppure troppo bello, costruito pochi anni prima al di sopra della Grand Central Station, che serve come sede di varie esposizioni tra le quali l’annuale Westminster Kennel Club Dog Show, la celebre mostra canina che si svolge dal lontano 1877. La Società degli Artisti Indipendenti – che si ispira alla consorella francese Société des Artistes Indépendants – è stata fondata nel 1916 con lo scopo di organizzare mostre alle quali può partecipare chiunque si iscriva, non esistendo giuria né premi, sufficiente pagare una quota di sei dollari. Tra i fondatori ovviamente il collezionista Walter Arensberg che ne diventa per breve tempo esimio direttore, lo stesso Marcel Duchamp, alcuni membri dell’Aschan School e solidi pittori realisti (William J. Glackens, John Sloan, Robert Henri, Maurice Prendergast, George Bellows, Rochwell Kent), il teorizzatore del cubismo il francese Albert Gleizes, l’astrattista John Marin, lo storico dell’arte Walter Pach, il fotografo dadaista Man Ray, l’italo americano e futurista Joseph Stella, e poi John Covert, la ricca ereditiera Katherine Sophie Dreier, infine la miniaturista Mary Rogers.

Il risultato della chiamata alle armi contro le posizioni passatiste della National Accademy è straordinario: 1.200 artisti e oltre 2mila opere esposte, in perfetto spirito democratico, seguendo l’ordine alfabetico dei cognomi degli autori (da Abbot Yarnall a Zorach Williams), la maggior parte delle quali in vendita; un’accozzaglia di generi e stili, dal cubismo al realismo, dalle tendenze più tradizionali a quelle più radicali, dal pittore professionista a quello per hobby, tutti  simpaticamente insieme. Il pezzo più esplosivo, anche se passa quasi sotto traccia, è certo quello presentato da Constantin Brancusi, il “Portrait of Princess Bonaparte”, altresì nomato “Princess X”, un bronzo specchiante falliforme che avrebbe suscitato somma riprovazione qualche anno dopo, nel 1920, a Parigi al Salon des Indépendants, e che nelle intenzioni dello scultore romeno rappresenterebbe l’essenza della femminilità, ed invece, più modestamente, sembra proprio un pene in procinto di erigersi. Non ci dilungheremo sul tema, basti dire che “Princess X” è una semplificazione di una precedente scultura dal titolo “Woman looking in a mirror” il cui modello era effettivamente la principessa Maria Murat Bonaparte, la bisnipote dell’imperatore di Francia, donna frigida sebbene sessualmente intraprendente, intellettuale impegnata nella divulgazione della psicoanalisi, diventata famosa anche per aver scritto un articolo sulle cause anatomiche della anorgasmia, tra le quali indicò, in primo luogo, la distanza tra la vagina e il clitoride.

12b50d1a035925b7bb1ae448bcb43499La scultura fallomorfa di Brancusi sarebbe stata perfetta a fianco dell’orinatoio dell’amico Duchamp che nel titolo declinato in argot (“Fontaine”) richiama apertamente il sesso femminile. Ma così non doveva essere. Ecco il resoconto dettagliato: qualche giorno prima dell’inaugurazione della mostra l’artista francese, insieme al proprio mecenate Arensberg e a Joseph Stella, si era fermato in un negozio di sanitari sulla 118th Street con l’insegna J.L Mott Iron Works per acquistare un bel urinoir di porcellana bianca. Tornato a casa, raccontano le versioni più accreditate, con pennello e colore nero lo aveva firmato “R. Mutt 1917”, quindi fatto recapitare al Grand Central Palace, allegando un indirizzo falso di Philadelphia e i sei dollari per l’iscrizione. Immaginiamo per testare la democraticità del premio e per misurare il confine oltre il quale l’artista non avrebbe dovuto inoltrarsi. Qui le cose iniziano a complicarsi: lo stesso Duchamp in una lettera indirizzata, il giorno dopo l’inaugurazione, alla sorella Suzanne indica in un’amica non meglio precisata l’autrice del readymade in questione. Alcuni storici dell’arte propendono nel credere che l’orinatoio sia dunque opera della, già descritta, scapestrata e allucinata Elsa von Freytag-Loringhoven, che all’epoca risiedeva proprio a Philadelphia e il cui assemblaggio dello stesso periodo, “God”, un sifone idraulico attorcigliato sopra una cassa di legno, richiama non poco il senso dell’orinatoio. Oppure, potrebbe semplicemente essere il desiderio di Duchamp di giocare a nascondersi dietro uno pseudonimo femminile, cosa che peraltro alcuni anni dopo si sostanzierà carnalmente nell’eteronimo Rrose Sélavy, un Duchamp travestito da donna e immortalato da Man Ray in una serie di fotografie che, dir bizzarre, è poco.

In ogni caso, chiunque sia l’autore, l’orinatoio giunge al Grand Central Palace l’8 aprile, a due giorni esatti dall’apertura, a un giorno dal vernissage. E nonostante il regolamento ultra democratico non preveda di poter rifiutare un’opera, alcuni membri del comitato direttivo in riunione straordinaria decidono di non esporre la “Fontana” poiché non risulta trattarsi di arte. O meglio, fingono di non averla mai ricevuta. Ovviamente, non sapendo che si tratta di una boutade di Duchamp, da principio neppure lo avvisano, cosa che fa irritare ancor di più l’artista francese e lo costringe appena venuto a conoscenza del rifiuto a immediate, irrevocabili dimissioni dall’associazione, sostenute da sarcastica constatazione: “Le uniche opere d’arte che l’America abbia mai prodotto sono le sue tubature e i suoi ponti”. La mostra dunque apre senza orinatoio. Anzi l’orinatoio sembra esser sparito. Tanto che, qualche giorno dopo, verrà ritrovato dallo stesso Duchamp insieme a Man Ray dietro un tramezzo e da lì trasportato a braccia nello studio del fotografo e gallerista Stieglitz che provvederà a fotografarlo, ribattezzandolo “La madonna del bagno”, nonché ad esporlo nella sua galleria, la mitica 291. Sulla rivista The “Blind Man”, accanto all’immagine scattata da Stieglitz, verranno pubblicati due articoli dedicati al caso, uno non firmato ma scritto da Duchamp in persona, in cui si ribattono le accuse di oscenità. Dopo tanto clamore, l’orinatoio sparirà una seconda volta e per sempre, forse gettato nella spazzatura come conveniva. Nel 1950, in occasione della mostra newyorkese “Challenge and Defy” ricomparirà una replica comprata in un mercato delle pulci parigino. Altre due copie saranno realizzate negli anni Cinquanta, mentre nel 1964 Duchamp ne commissionerà ben otto in ceramica che saranno poi distribuite nei musei di arte contemporanea più a la page del mondo, dal Centre Pompidou di Parigi alla Tate Modern di Londra. 

Restano alcuni piccoli dettagli. Innanzitutto, il nome scelto per firmare il cesso. Cioè quel R.Mutt che ha fatto impazzire gli esegeti. Troppo poco credere che sia solo la storpiatura dell’insegna dell’idraulico da cui fu acquistato il pezzo (J.L. Mott Works), troppo-troppo vedere astrusi riferimenti al termine madre (dal tedesco mutter), o a idiota (dall’inglese mutt). Più semplice fidarsi dell’interpretazione originale di Duchamp che racconta di come all’epoca imperversasse in America un fumetto i cui protagonisti rispondevano al nome di Mutt&Jeff: due beoti per eccellenza, uno tozzo con la tuba, l’altro lungo e allampanato con la bombetta. Importante è invece capire perché Duchamp scelse un orinatoio che appare dal punto di vista del gusto non come un oggetto neutro al pari degli altri suoi readymade, ma fortemente connotato per il contenuto scatologico che gli è connaturato e da cui non si può prescindere. Certo, Duchamp voleva sbarazzarsi dell’arte della tradizione, da anni rimuginava su come lasciarsi alle spalle due millenni di storia, lucidamente rifletteva su come azzerare il desiderio di bellezza e senso che alberga in ogni uomo (e in questo caso non può che essere definito un cattivo maestro), ma sembra quasi preterintenzionale il risultato ottenuto dal gesto compiuto in puro stile dadaista, carico di quell’ironia dissacratoria che si riconosce all’artista francese, il quale forse non immaginava, uscendo dal negozio di sanitari, di stare per fare il proprio capolavoro né di cambiare definitivamente le progressive sorti dell’arte. La questione ha in sé un qualcosa di tragicomico: Duchamp tutto sommato scherzava, il mondo lo prese sul serio.

E perché il mondo continua a prenderlo sul serio è un mistero gaudioso.