Sesso, droga, corruzione. L’Italia sporca…al cinema

La corruzione ci attende sempre dietro l’angolo, pronta a saccheggiare e insidiare l’Italia mediante un cospicuo campo minato, ad infestare i tg come una scia chimica, come nelle più recenti notizie. A raccontarla ci ha pensato anche il grande schermo, sputandoci in faccia immagini talvolta spettacolari ed impattanti, di quelle storie che solo apparentemente sembrano finzione.

Menzione inevitabile, quando si parla del sacco disuburra Roma, è quella di Suburra, film del 2015 di Stefano Sollima (regista anche di ACAB – All Cops Are Bastards e delle serie televisive Romanzo criminale e Gomorra), che dipinge il nero più nero della capitale, la cui triste attualità è destinata a perdurare: Roma diviene il tragico teatrino non solo di una classe politica ammarcita, bensì anche del tessuto sociale che le gravita intorno: uomini potenti e meno potenti, dal Vaticano alle strade battute da escort e PR come arrampicatori sociali, luoghi in cui cade una pioggia incessante, “leitmotiv” di tutto il film, che non lava via il male. “Non devo essere io a rassicurare il pubblico, dev’essere lo Stato, quella sullo schermo è solo la rappresentazione della realtà, la cosa terribile è quando succede davvero: è quello che deve farci indignare” dichiarava il regista nel luglio del 2015, pochi mesi prima dell’uscita del suo film; “Suburra risponde a una domanda: dopo Romanzo criminale Roma oggi com’è? Non mi sorprende che il film si sia sovrapposto con l’indagine della magistratura e le inchieste giornalistiche, quando indaghi sui meccanismi, ti trovi a stare parallelo alla realtà”. Una sorta di gangster movie, un film metropolitano dal gusto a tratti noir.

C’è poi Il ministro di Giorgio Amato, recentissimo film del 2016, che si fail-ministro-giorgio-amato-al-cinema-200x200 forte dell’espressività di Gian Marco Tognazzi per raccontare con amara ironia monicelliana il rovescio di una parabola confezionata a puntino per corrompere: una serata organizzata da uno scaltro imprenditore “in onore” del ministro, durante la quale il più bieco clientelismo viene deriso e stravolto dalle dinamiche relazionali dei personaggi: sesso e identità di genere si mischiano alla politica, in un affresco di esistenzialismo patinato.

Ecco infine che anche i fratelli Vanzina, ben lontani da raccontare gli yuppie con il Rolex degli anni ’80, portano sul grande schermo la loro Mafia Capitale: il loro ultimo Non si ruba a casa dei ladri rivela le due facce della medaglia della società, una onesta e l’altra disonesta, nella quale la prima inizialmente soccombe alla seconda per mano della politica: magistrale l’interpretazione di Fabrizio Buompastore del tronfio onorevole Maronaro, affiancato dalla sfrontatezza del faccendiere Simone Santoro, interpretato da Massimo Ghini. Il film si risolve in un esilarante intreccio ad esito “karmico”, forte della dimestichezza dei Vanzina con la commedia.

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Cosa accade quando invece è il cinema ad anticipare i risvolti della società, addirittura a prevederli? E’ il caso di film di grande impegno civile come Le mani sulla città di Francesco Rosi, che porta con sé un messaggio purtroppo sempre attuale: il film, vincitore nel 1963 del Leone d’Oro a Venezia, è approdato in home video nel novembre del 2014, appena un paio di settimane prima che si accendesse la miccia di Mafia Capitale, la pellicola in questione ci appare quindi profetica, come se lo stesso Rosi fosse un veggente pronto a sollevare il velo di Maya: un pilastro di denuncia della corruzione, della speculazione edilizia italiana degli anni ’60, un male incancrenito tutt’ora restio a regredire, una malavita eternamente imperante. Mafia Capitale è la più lampante dimostrazione che un film come Le mani sulla città ancora stride di un’attualità malata, perché, proprio come sosteneva Schopenhauer, la storia è non altro che il ripetersi del medesimo dramma.