Sergio Daricello ha la faccia del bravo ragazzo, tiene quei grandi occhi azzurri spalancati sul mondo, carichi di allegria, come un bambino che aspetta che Babbo Natale gli faccia una bella sorpresa. E di sorprese Sergio ne ha ricevute. Come quando Madonna, al secolo Luisa Veronica Ciccone, ha scelto i suoi bozzetti per il video Rebel heart . Sergio ha ritratto la popstar come una moderna Giovanna d’Arco -“ Sono molto legato alla pulzella d’Orleans per la sua follia e determinazione, lei sentiva la voce di Dio e credeva fermamente nei suoi ideali, combattendo fino alla fine per un Dio che non l’ascoltava. Forse, in fondo, credo di essere un poco come Giovanna d’Arco perché anch’io, come lei, cummatto (combatto, lo dice in dialetto – ndr ) e alla fine scriverò un libro o mi farò tatuare la frase Che cosa fai nella vita? Cummatto! – sorride mentre pronuncia la frase in siciliano – il bello nella mia vita è che nulla è stato semplice e quando lo è stato è perche nascondeva delle cose orribili! ”.
Un percorso professionale il suo, molto intenso. Nasce a Milano da genitori palermitani e ancora bambino torna a vivere a Palermo fino ai venti anni per poi proseguire il percorso professionale tra Milano e il resto del mondo Lavora per Dolce&Gabbana e Etro e infine per Donatella Versace . Tra il 2012 e il 2013 è stato direttore creativo del marchio italo-giapponese Giuliano Fujiwara. A trentotto anni ritorna a Palermo.“ Io sono un palermilanese” mi dice in quel suo tono calmo e dall’ inequivocabile inflessione palermitana – “ ho imparato a vivere nella jungla palermitana da ragazzo ma ho imparato a lavorare a Milano, a tenere dei ritmi di lavoro completamente diversi da quelli palermitani , anche se voglio sfatare un falso mito per i lettori al nord : qui lavoriamo tutti, soltanto il nostro approccio è diverso. Il minnifutto ( non mi importa – ndr ) è uno scudo per vivere in maniera più tranquilla, magari inizi in total relax, prendendoti i tuoi tempi poi, quando arriva il momento della consegna attacchi il turbo!”. Ed è questa la Palermo che traspare.
Le sue collezioni raccontano di una sicilianità fiera perché consapevole del suo valore: “Ho ripreso possesso della mia città, di cui mi sento Re non riconosciuto, ma sono fiero della struggente bellezza di Palermo, anche se con grande tristezza quando vedo le cose che non vanno; ma la Bellezza, a Palermo, ha un peso maggiore rispetto alle brutture. Mi viene più semplice giustificare il posteggiatore abusivo: qui a nessuno interessa delle strisce blu, consegniamo la macchina al posteggiatore – mi dice ridendo egli stesso del paradosso – e con due euro l’automobile sta posteggiata tutto il giorno, a Milano ti servono almeno trenta euro! Per questo non andrò mai più via dalla mia città!” Del suo percorso lavorativo l’esperienza in Cina è quella che ricorda con meno piacere: “Ho vissuto per un anno in Cina cercando di entrare nei loro meccanismi; spesso ritorno con la testa ai miei step irrisolti- mi dice cercando di spiegarmi i suoi percorsi mentali- e quella nazione è una realtà che non ho apprezzato. L’handicap è stato il non riuscire a trovare delle coordinate comuni , nessuno stimolo dal punto lavorativo. Mi richiedevano il metodo italiano ma alla fine non riescono ad applicarlo. L’ideazione della collezione, la ricerca del tessuto, per la realtà cinese non esiste: dovevamo copiare e basta. Nessuna ricerca , nessuna originalità”.
Sergio Daricello ha avuto il privilegio di collaborare con i grandi ma non ha perso la semplicità e l’umiltà: “se vado a vedere la collezione di Dior nel mio cervello scatta il meccanismo al contrario! Come farei io questa pince? Cerco nella mia testa di mettermi in competizione con i più grandi non con i più piccoli!”. Mentre mi racconta di sé, mi guardo intorno: quasi mi sembra di ritornare ai miei ricordi di bambina, quando nonne e zie trascorrevano i pomeriggi a cucire e ricamare, le tazze del caffè tra stoffe e spille da balia, tra macchine per cucire e manichini con abiti imbastiti. Concept store, questo il nome dato allo showroom, dove insieme ad altri artigiani-artisti, nascono le idee, le collaborazioni, dove finalmente l’atavico individualismo siciliano si infrange con la consapevolezza che l’unione fa la forza.
E in questa fucina d’idee, tra vestiti, gioielli e accessori si respira la Bellezza, la creatività ma anche la semplicità e la complicità. Le donne che veste Sergio riportano a una Palermo felicissima, quasi le vedi passeggiare con i loro paletot e i loro cappellini, quando l’eleganza a Palermo era d’obbligo. “Avrei voluto vestire Costanza d’Altavilla e Donna Franca Florio, esistono delle donne che quando indossano un abito esprimono se stesse e rendono l’abito simbolo della loro persona. Queste sono le donne icona, come Marilyn, che io considero prototipo assoluto di bellezza, femminilità, sensualità e fragilità. Nelle sue collezioni il rigore delle linee unito alla sontuosità dei tessuti s’ispira al barocco palermitano, diverso da quello della Sicilia orientale,qui assume un certo rigore, una natura più essenziale. “Il barocco a Palermo raggiunge uno stupendo equilibrio delle linee , mai pacchiano e opulento. Questa è la ricerca che applico nel mio lavoro: il concetto del contrasto e della sovrapposizione. Dalla mia cabina di regia – così Sergio definisce la sartoria- prendono vita le mie idee. In questi anni ho conosciuto tanti posti e mi sono accorto che quello che prima vedevo brutto adesso va in secondo piano. Faccio il turista nella mia città, prendo la macchina fotografica e passeggio: una linea, una colonna, una piazza, una chiesa , un giardino sono la mia ispirazione perché ogni cosa diventa un quid”. “Ogni donna dovrebbe vestire almeno una volta nella vita, qualcosa di sartoriale, fatto su misura, come quando affidi la tua casa a un architetto e lui cerca di capire come sei per interpretare attraverso il suo lavoro quello che tu sei ed esprimerlo al meglio. Naturalmente non è un discorso valido per chiunque, ma questo modo nuovo di concepire la moda può pian piano diffondersi e sviluppare maestrie che abbiamo dimenticato”