Milano: la popolare, quella dei lustrini, dei veri milanesi e di Robecchi

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alessandro-robecchiDue anime che non si incontrano mai, questa è Milano. Una è l’anima popolare figlia dell’epoca industriale, degli operai della Pirelli, quella del miracolo economico, delle case di ringhiera e dell’immigrazione. L’altra è quella dei lustrini, delle settimane della moda, del design, di persone che pagano una cena quanto l’affitto mensile di una stanza per studenti e che usa l’inglese anche per dire le cose più banali.

Sono due mondi, due stili di vita che cozzano tra loro e che hanno creato una strana amalgama che rende la città meneghina unica. In un attimo si può passare dall’una all’altra, ma solo se non siete milanesi milanesi. I milanesi milanesi lo sanno quali locali frequentare, come vestirsi e sono dei maestri nell’arte dell’apparenza. La Milano autentica, quella che fa intravedere il suo passato è ancora quella di periferia, quella che non ha subito gli abbellimenti del centro.

Tra i vicoli di questa Milano, tra i suoi palazzi in stile liberty e i bar malfamati di Viale Monza e del Corvetto si muove un tipo circospetto. Un milanese milanese. Un autore televisivo, di uno di quei reality che mostrano le miserie umane ad un pubblico avido di disgrazie altrui. Carlo Monterossi è un uomo che per finire nei casini sembra fatto apposta. Se leggete sui giornali di un omicidio misterioso e dai risvolti oscuri potete star certi che il nome di Monterossi da qualche parte nei verbali salterà fuori. Lui probabilmente se ne starà con il suoi collaboratori Oscar e Nadia a sorseggiare un single malt whiskey, un Oban 14 (scozzese, di antica tradizione e da 40€ a bottiglia), nel suo appartamento da una milionata.

Nel loro girovagare per la città per cercare di risolvere il caso, Monterossi & co. mostrano tutto il degrado e tutta la bellezza di Milano. E immancabili in sottofondo le canzoni di Bob Dylan li scortano in queste peregrinazioni fisiche e mentali. Alessandro Robecchi, scrittore, autore per la Sellerio.

Robecchi, ma la sua Milano è la stessa del Monterossi?

Sì. Milano è una città molto orizzontale. I ricchi parlano con i ricchi, il ceto medio con i suoi simili, i proletari idem, ma anche gli stranieri. È una città fatta a strati, molto chiusa e poco comunicante. È molto difficile che ci sia uno scambio tra chi abita le periferie e le zone benestanti della città. È questo fa ancora più impressione se si pensa al fatto che Milano è una città “piccola”.

Piccola?

In metropolitana la si attraversa in una mezz’ora. Non è paragonabile come dimensioni a Roma. Le differenze di cui parliamo prima della crisi non erano così visibili, ma la proletarizzazione del ceto medio le ha fatte emergere. In centro la gente si veste in maniera diversa che al Giambellino, anche le macchine per le strade sono diverse. La differenza di classe si vede ad occhio nudo.  

Anche nel crimine c’è questa doppia Milano?

Credo che se pensiamo a una criminalità più moderna e finanziaria non vi è dubbio che il punto di riferimento sia il centro con i suoi quartieri direzionali. Se pensiamo ad un noir più spicciolo con scippi e rapine, in questo caso la periferia offre più materiale.

Monterossi attraversa entrambe le Milano…

Monterossi è una persona normale, seppur con un lavoro particolare. È un civile che indaga. Lo conduco per Milano perché credo che dal punto di vista narrativo la città rappresenti uno scenario bellissimo. La verità è che mi invento delle storie e il mio protagonista si muove in queste storie che tentano di mischiare il più possibile centro e periferia, quartieri alti e bassi. I problemi della vita sono diversi in certe zone di Milano rispetto ad altre. Visto che la città di suo ha pochi contatti mi sono divertito a mischiarla un po’ io.

In che modo?

Per esempio nel secondo libro quando Carlo decide di darsi alla latitanza non scappa in un paese del Sud America, ma va al Corvetto. Cioè in quartiere di periferia a 1 km in linea d’aria da casa sua. Ecco questo espediente mi è servito per dire: “Attenzione, Milano non è solo la Milano che vogliono farci vedere”. Milano è più Milano. È quella del design, ma è anche quella di posti che non vengono mai raccontati, come il Corvetto. E io voglio raccontarli.

La periferia di Milano ha un lato oscuro?

I lati oscuri sono dappertutto, sia in centro che in periferia. È certo che c’è qualcosa che rende la periferia “più romantica”. Sono luoghi più belli da raccontare perché sono più complicati. La periferia non è un quadro ad una sola dimensione. Le periferie contengono vite complesse e compromessi necessari tra il bene e il male. La linea di demarcazione tra illegale e legale in quei luoghi è più sfumata. È questo le rende uno scenario perfetto per i miei romanzi.

Quando parla di periferia milanese pensa a un luogo in particolare?

Ad esempio in Corso Lodi, c’è Via Brenta. È una specie di frontiera, di confine. Se uno vuole capire cosa sta accadendo a Milano e dove sta andando la città si dovrebbe fare un giro da quelle parti.  Da un parte c’è una comunità nord africana molto integrata che lavora e produce Pil. E dall’altra parte si trova un’altra comunità altrettanto integrata di sud americani. Ci sono dei locali molto divertenti, sembrano il bar di guerre stellari con il barista cinese, i tavolini di arabi e quelli di peruviani. Credo che queste differenze siano una ricchezza e vadano valorizzate.

Milano è la capitale morale italiana?

Secondo me questa cosa è uscita fuori con l’Expo. Quell’evento è diventato una questione ideologica. All’improvviso non si discuteva più di una fiera internazionale, ma se l’Expo fosse il miracolo che gli italiani aspettavano o se fosse solo una truffa. Probabilmente la verità sta nel mezzo, anche se il miracolo non c’è stato. E nel bel mezzo del dibattito è venuta fuori questa storia della capitale morale, di un luogo in cui le cose funzionano. È certamente vero che a Milano le cose funzionano un po’ meglio che da qualche altra parte, però penso che per com’è messa moralmente l’Italia oggi una capitale morale non ci sia.

Neanche le periferie hanno vissuto un miracolo Expo?

La ricaduta sulle periferie è stata nulla. A Quarto Oggiaro, al Corvetto, al Giambellino che ci sia stato l’Expo non ha fatto alcuna differenza. Delle periferie ci si ricorda, purtroppo, solo dieci giorni prima delle elezioni. Allora si comincia a dire “Le periferie, per carità, adesso dobbiamo fare qualcosa per le periferie”. A Milano per esempio ci sono migliaia di alloggi popolari sfitti, sono strutture in attesa di ristrutturazione e in una città in cui ci sono persone che dormono in macchina…

Vent’anni fa era diverso?

C’era Tangentopoli. Era il momento della fine della Milano da bere – i milanesi che hanno vissuto quella Milano ne fanno volentieri a meno -. Ci si era resi conto che era tutto molto fittizio. C’era più disincanto per ciò che stava succedendo. Oggi c’è un disincanto diverso. Abbiamo solo accettato che la città abbia due velocità: una per i ricchi e una per i poveri.

E i milanesi come sono cambiati?

Ci sono tanti tipi di milanesi. Hanno però tutti due o tre caratteristiche comuni: efficienza e una sorta di calvinismo.

Si spieghi…

Nel senso che qui si lavora e chi non lo fa viene con sospetto. Il milanese è un concentrato di mugugno e efficienza.

Ci sono ancora milanesi milanesi?

Sì ce ne sono. C’è questo vezzo di dire io sono di Milano Milano Milano. La città ti assorbe. Parliamo di una medaglia d’oro della Resistenza che pur mugugnando, con qualche accenno di velato razzismo, ha accolto tutti. Per anni è stata la più grande città pugliese d’Italia. Ogni tanto sento i milanesi che parlano ancora con accento pugliese o siciliano, ma io li considero più milanesi dei milanesi.