La canzone italiana nel cuore triste di un italiano all’estero

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9.Bellavista_ph. Nunzia Esposito_bUna canzone che ne contiene tante altre, come una scatola cinese o come le poesie di Giovan Battista Marino. Ma mentre il poeta barocco ricorreva alla «tecnica del rampino» solo per far rimanere sbalorditi i suoi lettori, Bellavista è stato mosso da tutt’altri intenti quando ha scritto «L’Italienne», singolo di lancio del disco «Tarantella nel castello Putipù» (Bollettino Edizioni Musicali/Artist First).

Non è alla meraviglia ma alla riflessione ed alla denuncia che mira il cantautore e polistrumentista napoletano. Il suo «Italienne» è un uomo deluso, fuggito via dal nostro Paese, che affronta un viaggio immaginario attraverso un susseguirsi di citazioni di canzoni che hanno caratterizzato la storia della musica italiana. E così, in una vorticosa successione, si menzionano «Parlami d’amore Mariù», «Un’ora sola ti vorrei», «Se bruciasse la città», ma anche passaggi celebri di «Sei bellissima» della Bertè o «La canzone del sole» di Battisti. L’originale pastiche ha un senso: è un mezzo per l’esule per sentirsi sentimentalmente più vicino alla sua patria, dalla quale non sarebbe voluto mai scappare, ma che al contempo critica. Bellavista ripercorre in note l’italianità.

Prima di lui l’ha fatto, seppur in modo diverso, Roberto Manfredi con «Skanzonata», volume (Skira editore) da cui sono nati prima una trasmissione radiofonica e poi uno spettacolo, che in comune hanno di far intraprendere a chi legge, ascolta o guarda un viaggio nella canzone comica e satirica nazionale. Roberta Valtorta in «Volti della fotografia» (Skira) compie un percorso analogo attraverso le immagini, proprio come Piergiacomo Petrioli in «Viaggio nell’arte italiana da Firenze a Roma tra Medioevo e Rinascimento» (La Feltrinelli) nella nostra pittura.

Il Belpaese lo si racconta attraverso le sue diverse forme espressive, che spesso e volentieri ci aiutano a dimenticarne le brutture per mostrare la bellezza vera. E’ quanto fa Bellavista, all’anagrafe Enzo Fiorentino, che si fa strada nel mondo discografico rubando il nome al personaggio del celebre film di Luciano De Crescenzo. Come il professor Bellavista, anche lui celebra la sua terra, non senza bacchettarla quando ce n’è bisogno. E come lui auspica una rivoluzione, purché fatta con il pensiero. I suoi testi nascono dall’odio e dall’amore per questo Paese, «ma non ho mai pensato di lasciarlo», precisa.

Si avvicina alla musica sin da bambino studiando pianoforte, chitarra e basso elettrico. Negli anni ha stabilito un feeling naturale con qualsiasi strumento definendosi ironicamente come «un menestrello che saltella da una parte all’altra del palco, ma soprattutto da uno strumento all’altro». Anche se non è un esordiente, dice di sentirsi agli inizi del suo percorso. «Dopo essere stato per anni a servizio degli altri, ora, come solista, sono partito da zero». Ma avverte: «Non ho mai pensato di scalare le vette delle classifiche». Del resto, non intende minimamente piegarsi al mainstream. Dieci le tracce che compongono il suo album, alcune eseguite con strumenti della tradizione popolare, che raccontano storie di vita di persone comuni attraverso metafore, citazioni e messaggi forti celati da una sottile ironia. «Anche quando scrivo canzoni d’amore non riesco a farlo in maniera sdolcinata, non posso omologarmi se questo vuole dire snaturarmi» commenta, confermando che ironia e voglia di ribellione sono e continueranno ad essere la cifra distintiva della sua produzione.