Fogliati, genialità sospesa tra scienza ed arte

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00 partFormidabili quegli anni, scriveva Mario Capanna alla fine degli Ottanta -ma non si riferiva ai famigerati Eighties bensì all’irripetibilità di un’epoca che la vulgata avrebbe definito della fantasia al potere. Insomma la fine dei Sessanta e buona parte dei Settanta.

Formidabili, a giudizio del sottoscritto, furono quegli anni anche sul versante delle arti visuali, non fosse altro perché molto di quel che si vede nel 2016 arriva in buona parte da lì e in particolare dal mondo cultural visivo dell’Italia: non solo il Futurismo esportò l’Italia -che mai fu Italietta-, ma anche molte altre sperimentazioni (Agnetti, De Dominicis, Fontana, Manzoni, tanto per citare i nomi dei Grandi che anche i più piccini fra voi conoscono) -la perfida Albione dei Kapoor ci fa ‘na pippa, noi abbiamo Pistoletto.

In quegli anni formidabili, in Italia, visse (ci ha lasciato quattro mesi fa) e lavorò Piero Fogliati (Canelli, 1930 – Torino, 2016), artista ammaliato dall’impresa scientifica e tecnologica, che la critica e il mercato non apprezzarono mai abbastanza, “complice” il suo carattere non mondano e non competitivo -quello dell’arte contemporanea è un mondo di sangue e merda, bellezza.

Artista che evidentemente operò nel momento giusto nei posti giusti – mostre in gallerie importanti e due biennali veneziane -, senza tuttavia trovare, a parte Tommaso Trini e Filiberto Menna e pochissimi altri, una critica attenta e sveglia che ne promuovesse l’incredibile inventiva.

Com’erano profondi i Greci nella loro superficialità!, chiosava Nietzsche in La gaia scienza. E allora prendete due tubi in alpacca un po’ ricurvi, appendeteli ad altezza opportuna e portateveli alle orecchie: risultato, la trasformazione dei rumori esterni in un basso continuo e avvolgente, Gli ermeneuti (1968). Oppure prendete gli stessi tubi, ma anziché sospenderli ad altezza orecchie lasciateli a terra, inserite al loro interno dei liquidi come acqua e olio, collegateli a un compressore che introduce aria regolabile per mezzo di rubinetti e otterrete quelle installazioni chiamate Latomie (1968):  spettri timbrici e sonori da voi stessi manovrabili come foste direttori d’orchestra. E ancora, prendete i soliti tubi che ormai conoscete benissimo, sempre in alpacca e sempre un po’ ricurvi, inserite altro liquido e trasformateli in “risuonatori” manovrabili con rubinetti da idraulico, avrete ottenuto un “organo ad acqua” detto Liquimofono (1965). E infine, lasciate perdere il suono e apritevi alla luce: procuratevi tre asticelle inclinate collegate a un motore e tre eliche in grado di ruotare liberamente, impartite un movimento rotatorio alle suddette asticelle in modo da far muovere liberamente anche le tre eliche secondo un procedimento corale e rotatorio et voilà, les jeux sont faits, Forme di buio (1967-1976), che il regista Sergio Martino autore nel 1972 del film Tutti i colori del buio ci si sarebbe schiantato -creativamente.

Stiamo scherzando perché amiamo Piero Fogliati, prodigio pensante e operativo, umile e geniale. Fu un pensatore di chimere come il progetto urbanistico matto e complicatissimo La città fantastica, rimasta nella condizione utopistica di Lemuria (sorte che toccò a gran parte delle sue intuizioni, o fissazioni, come le chiamava lui), che prevedeva di decorare i cieli disperdendovi gas colorato per mezzo di una turbina, di convogliare il rumore della città in un auditorium per trasformare il caos della metropoli in un evento moltiplicatore di moduli sonori, di convertire i fumi delle industrie e i corsi dei fiumi in eventi sonori, di far suonare il vento.

Ma Fogliati fu anche un realizzatore, o un inventore, appunto, come lo definì Lara Vinca Masini: fu l’autore di una produzione d’arte visionaria-ma-a-volte-possibile, di cui la milanese galleria Dep Art, in collaborazione con Osart Gallery, presenta la summa, cioè la retrospettiva, con opere che dagli Anni Settanta all’ultimo periodo abbracciano le ricerche, sia sul suono che sulla luce, di un artista vissuto in silenzio che se n’è andato in punta di piedi, come scrive Alberto Zanchetta nel pregiatissimo volume che accompagna la mostra, visitabile fino al 6 agosto.