Nessuna redenzione, Giorgio Pellegrini è un criminale incallito. Lui il peccato lo ha scelto, lo vuole, ma allo stesso tempo vorrebbe riuscire a far parte della società. Soldi e potere in apparenza lo hanno elevato dalla sua condizione di ex galeotto, però il disordine, il passato sono dietro l’angolo pronti a scompaginare la vita di Pellegrini.
È un racconto acre quello che caratterizza i romanzi di Massimo Carlotto. Crudeltà, realtà e l’amaro gusto di una storia che potremmo leggere sulle cronache di città. Se si è in cerca di sicurezza, di sapere che alla fine i cattivi vengono arrestati e l’umanità ha una speranza il noir di questo autore non fa al vostro caso.
È un’Italia disillusa quella di Massimo Carlotto. Autore padovano, noto alle cronache per un caso di omicidio negli anni ’70. Una storia di processi, condanne e assoluzioni che andò avanti fino al 1993, quando Carlotto ricevette la grazia presidenziale. Forse proprio quest’esperienza, il carcere, la fuga a Parigi e in Messico, sono gli elementi che permettono a questo autore di raccontare così bene la marginalità e l’esclusione, che rendono i suoi personaggi così veri.
Nato e cresciuto in periferia, è il secondo traghettatore di questi racconti dei sobborghi italiani. La sua Padova è uno dei poli del Nord Est che per decenni ha trainato lo sviluppo dell’Italia. Poi la crisi e niente è stato più lo stesso. Una città di provincia in cui sembra non accadere molto. Padova all’apparenza sonnecchia.
La sua Padova oggi com’è?
«Non percepisco Padova come un luogo unico. Qui si usa dire Patrere, Padova, Treviso e Venezia sono un’unica area metropolitana. La gente vive in un posto, lavora in un altro e si diverte in un altro ancora. C’è una circolazione di persone impressionante, per questo concepisco un’area che è quella di Patrere e del nord Est. Ad esempio se dovessi pensare a quale sia la periferia penserei a Mestre, a Marghera, e ad alcune zone particolari. Andrei oltre alle periferie classiche delle città. Ormai il concetto di periferia al Nord est è cambiato».
Come?
«Non ci sono più dei luoghi in cui la gente trascorre la propria vita, non si nasce, vive e muore nello stesso quartiere. Ci si sposta di continuo. Ognuno ha la sua periferia, ma questa può essere anche a trenta chilometri di distanza. C’è insomma una dimensione diversa. La relazione tra il centro e la periferia è saltata».
Invece com’era la periferia di Padova prima che questa relazioni si spezzasse?
«C’erano i quartieri ghetto come a Marghera. Da lì sono venuti fuori alcuni personaggi della mala del Brenta. A Padova c’erano quartieri come Arcella, ma ormai anche questi si sono modificati. Quel tipo di tessuto urbano non esiste più e perciò il ragionamento che fa oggi lo scrittore sul territorio è diverso».
Qual è?
«Diciamo che funziona per ambienti. Ci sono ambienti centrali e ambienti periferici, ma sono più legati agli ambienti delle persone che legati al luogo in sé. C’è da dire però che a Padova si stanno in parte ricreando questi micro ghetti. Succede lentamente da quando è ricomparsa l’eroina, sono ancora in fase primordiale».
Diceva che bisogna ragionare per ambiente. Si spieghi
«Ragionare in termini di ambienti è molto più interessante. Ci sono infatti degli ambienti che sono estremamente periferici, come quelli dei migranti o degli stranieri di seconda generazione. Qui a Padova c’è una comunità cinese che trovo stimolante studiare. Pensi che è stato scoperto che nel centro di distribuzione merci i cinesi avevano allestito una piccola scuola e un ospedale. Questa secondo me è la periferia odierna. Non è più circoscritta ed identificabile in un quartiere, non lo abita più. Piuttosto è una periferia polverizzata nel territorio».
Come se fossero dei non luoghi?
«Sì possiamo dire così».
La periferia classica è morta?
«Prima a Padova c’era la zona del Portello, un quartiere di ladri e prostitute. Poi è stato smantellato, oggi non è più quella periferia. Un’altra zona da classica periferia era quella di via Anelli. Un enorme gruppo di case popolari prima abitato da studenti, poi passato alla mafia nigeriana. Per 10 anni quell’ammasso di cemento armato è stato gestito dalla mafia, era una vera e propria roccaforte in città. Due isolati di ristoranti, vie trafficate, di spaccio, di prostituzione, tanto che si decise di costruire un muro che ne delimitasse i confini. All’interno la mafia aveva organizzato tutto in maniera “militare”. Poi è stato smantellato, le famiglie sono state distribuite nella città e il quartiere è stato chiuso. Una zona di due isolati con questi palazzoni disabitati, dei fantasmi in attesa di un piano regolatore che li riporti ad essere sfruttati dalla città».
I suoi romanzi, da quelli dell’Alligatore alla trilogia di Giorgio Pellegrini (Arrivederci amore, ciao; Alla fine di un giorno noioso; La banda degli amanti), mantengono degli elementi tipici di questi luoghi scomparsi…
«Ambiento sempre situazioni di periferia. Ho una forte relazione tra realtà e romanzo, tutti i locali che descrivo sono veri, così come lo sono le persone all’interno delle mie storie. Gli incontri tra un personaggio e l’altro avvengono spesso in questi posti caratteristici. Locali un tempo di proprietà di padovani legati al mondo della criminalità locale, oggi in mano ai cinesi. Questo cambiamento è molto interessante da raccontare e rientra proprio in un discorso di periferia».
Quindi ha creato un ponte tra questi due ambienti?
«Il noir da 20 anni indaga la relazione tra società e crimine attraverso la relazione tra criminalità organizzata e tre ambienti della nostra società: imprenditoriale, politico e finanziario. Il ponte tra criminalità e questi ambienti ha determinato il salto di qualità della criminalità moderna. È questo che mi ha portato ad indagare e approfondire questa nuova relazione. Il ponte periferia-centro, è questo che mi interessa, perché così il romanzo diventa una lente di ingrandimento che mi permette di osservare la società».
Usa la relazione tra centro e periferia per raccontare il contesto?
«Esatto. È quello che c’è intorno oggi, è un rapporto criminale in una società in cui moltissime persone regolari e non legate ad ambienti illegali si siano date al crimine attraverso una sorta di illegalità diffusa legata alla corruzione».