Ma chi l’ha detto che per ammaliare il pubblico bisogna per forza mettere in scena il conturbante? Era ora che la finissero coi teschi, da buon reazionario salverei solo il compianto Gianfranco Ferroni. ”Salverei”, perché anche Matteo Pagani (1979, vive e lavora a Reggio Emilia) ogni tanto un teschio ce l’infila, nelle sue “stanze” in mostra alla galleria Rubin di Milano. E, a rigore, un po’ conturbante lo è, la sua pittura. Ma, almeno per una volta, abbiamo a che fare con la pro-positività di un mestiere che non avrebbe molto da invidiare ad autentici pezzi da novanta, anche d’oltreoceano e d’altra epoca: prendete Norman Rockwell e appiattìtene un po’ le campiture, eliminate il retroterra etico da american culture e aggiungete quello che gli esteti del Settecento chiamavano quel-certo-non-so-che (è la bellezza, bellezza) e otterrete un risultato assolutamente personale che va al di là del puro piacere visuale. Alla sua seconda personale milanese, Matteo Pagani ci blocca davanti alla sua inedita produzione (sei olii di medio e grande formato e una serie di carte ad acquerello e matita, per costi che vanno dai 1000 euro per le carte ai 6000 per le tele più impegnative): assisterete alla coordinazione armonica del vivente attraverso la raffigurazione di infanti in relazione simbiotica e un po’ onirica con gli animali, sullo sfondo di tappezzerie che evocano delle stanze. Matteo Pagani non è né apocalittico né integrato, la sua pittura è come le considerazioni inattuali dei talenti un po’ silenti che poi si scoprì anticiparono l’andazzo futuro.
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Matteo Pagani. Ad Parnassum
Galleria Rubin
via Santa Marta 10, Milano
www.galleriarubin.com