A teatro ricordando Jannacci, cantore della “piccola gente”

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Oggi parliamo un italiano aziendale, con degli anglicismi che fanno pena”. La lingua è uno dei punti su cui si concentra il profondo e appassionato omaggio che la voce di Moni Ovadia e la musica al pianoforte di Alessandro Nidi rivolgono a “Il nostro Enzo”, inteso come Enzo Jannacci, scomparso nel 2013: dal 7 al 10 gennaio i due sono andati in scena al Teatro dell’Elfo a Milano per raccontare l’universo di un artista che , tra parole e note, ha “espresso il cuore della piccola gente che desiderava una radio nuova e teneva nell’armadio la torta per i bambini a merenda”.

Uno spettacolo memorabile, che delicatamente porta nel “mondo di balordi, puttane e barboni” cantate da Jannacci, senza negare che ora quei colori e quella lingua stanno sparendo: “anche io ho frequentato quell’ambiente –dice Ovadia-, e ora ancora mi commuovo in certi momenti a rievocarlo. Da snob che sono diventato, amo ricordare e spero esca il fatto che Jannacci è culturale oltre che popolare”. Tra “Sei minuti all’alba” (“canzone a cui sono legatissimo”, dice sempre Ovadia) e “Vincenzina davanti alla fabbrica”. Tra “El portav i scarp de tennis” e “Faceva il palo”, tra questi e tutti i testi nella serata all’Elfo emerge un modo di vivere in cui “la fabbrica era una weltanschauung, “un modello in cui racchiudere i propri sogni”. “Andava a Rogoredo a cercare i suoi danè”, o “Sfiorisci bel fiore”, “L’Armando”, “T’ho cuprà i calzett de seda”, “Veronica”: ed ecco apparire il Carcano, via Canonica, l’Idroscalo, il Forlanini, l’Ortica. Le periferie, gli abbandonati, i dimenticati. Che però luccicano di realismo e verità, personaggi della mala, criminali, o al contrario che nei loro ideali trasmettono ossigeno per le speranze e le illusioni che potevano ricercare nel lavoro, nella semplicità e nell’impegno di cui vivevano. Si ride anche, nel notare certe espressioni dialettali milanesi, e si parla di Milano, dei milanesi e del loro imperdibile e prezioso sarcasmo.

Ma si va anche oltre alla stessa Milano, per uno spettacolo che sa parlare a tutti: non solo perché Ovadia attacca cantando “Vengo anch’io”, una delle poche canzoni non in dialetto di Jannacci, ma perché subito dopo recita una poesia in siciliano. Il messaggio è chiaro: “vogliamo guardare un aspetto profondo dell’italianità che passa anche attraverso il dialetto, e ringraziamo Jannacci per il grande sostegno che ha dato a questa lingua”. E al mondo che ha raccontato con questa.