Pennacchi: l’ultima notte di Benito e Claretta

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Antonio Pennacchi, Canale Mussolini parte seconda, Mondadori, 2015

E qui si dimostra che spesso un bel romanziere vale più di uno storico. Che la “narrazione” (lo “storytelling” tanto odiato dagli intellettuali antirenziani col cuore a sinistra e il fegato ingrossato) può illuminare pezzi di storia scostando le tendine dell’ideologia; e che il narrare restituisce un profilo umano ad amici e nemici, rossi e neri, belli e brutti. Anche gli angeli a volte sai si sporcano, anche il diavolo a volte è un buon diavolo e i buffoni come Gonella sono spesso figure cristiche. 

Si può usare anche, naturalmente, la parola “revisionismo” per “Canale Mussolini. Parte seconda” di Antonio Pennacchi (Mondadori, 425 pp, 22 euro, lo trovate in libreria dal primo dicembre), la cui trama, come per la prima parte, ruota intorno a Littoria/Latina, alla Famiglia Peruzzi di origine veneta trapiantata nelle Paludi Pontine. Anche in questo caso il lato “politico” del libro mira a restituire alla testa e al cuore una fetta di storia, in questo caso la Seconda guerra mondiale, in un flow non più inceppato dall’ideologia. Merito della singolare biografia politica dell’autore, che si è “liberato” del fascismo e del comunismo avendoli attraversati entrambi. Ma è merito soprattutto della voglia di raccontare: non storia ma storie, storielle anche, leggende prese per vere. Fantasmi. Veri. 

Come quello di Claretta Petacci, che pare ancora aspetti il suo Ben proprio a Littoria, in una strada buia, vicino all’albergo dove s’incontravano di nascosto, e che regala al protagonista un orecchino. Vero. O come quello di Ebherard, soldato tedesco del genio, gentile e attento, innamorato senza speranza, sempre del protagonista. Che è Diomede Peruzzi, rosso di pelo, figlio non si sa bene di qual padre, soprannominato “batocio” (“batacchio”, non si soffermiamo oltre). Un delinquente gentile, un lavoratore indefesso, un vitalista timido.

Intorno zii, prozii, nonni, cugini i cui nomi, documentati e anti-realistici, fanno quasi genealogia tribale enniana: Statilio, Temistocle, Accio, Adelchi, Adrasto, la Modigliana, Santapace detta Pace, Alfea, Armida, Bissolata. 

La lingua di Pennacchi è studiatissima (altro che il romanesco che gli mettono in bocca nelle interviste) sensibile, umoristica e pure quella antirealista: troviamo tra l’altro un Hitler che parla in veneto. La scansione dei tempi narrativi è quasi formulare: accanto a ogni data del romanzo è riportato il santo patrono.
Revisionismo quindi? Anche. Ma il pandant è una sorta di realismo magico che vuole suggerire un destino (vale a dire una verità), a mezzo contraddizioni. Dio salvi la narrazione, o storytelling che dir si voglia.

 

A SEGUIRE, IN ESCLUSIVA, L’ESTRATTO DAL ROMANZO DI ANTONIO PENNACCHI

 

Alle 15.35 Mussolini viene riconosciuto – «Il Duce! È il Duce, ch’agh vegna un càncher!» – ed arrestato. «Il suo sguardo è assente. Il suo volto è cereo», scriverà nel suo diario il partigiano «Bill» Urbano Lazzaro, fino all’armistizio nella guardia di finanza, poi vicecommissario politico della 52a Brigata Garibaldi “Luigi Clerici”: «La cornea è giallastra. Gli leggo negli occhi un’estrema stanchezza, ma non paura. Spiritualmente morto. Non ha più nulla da fare tra gli uomini».

I tedeschi riaccendono i motori e ripartono: «Agh dispiase massa, Duce, ma al rivédarne e grassie».

Alle 17 sono tutti prigionieri sorvegliati a vista – lui, i gerarchi, Claretta e Marcello Petacci – nel salone del municipio di Dongo, sulla sponda occidentale del lago di Como.

Alle 19, dopo avere informato della cattura per telefono a Milano il comando generale del Cln, il tenente “Pedro” – Pier Luigi Bellini delle Stelle comandante del distaccamento Puecher della 52a Garibaldi – trasferisce per sicurezza Mussolini nella caserma della guardia di finanza di Germàsino. Al momento di riandarsene, Mussolini lo prega di salutare «la signora Petacci».

Alle 19.45, rientrato a Dongo da Germàsino, Pedro mantiene la promessa e porta i saluti a Claretta. «La prego, riunitemi a lui» comincia a implorare lei: «Lo amo e l’ho amato, sono sua da tanto tempo, se Mussolini deve morire voglio morire con lui».

«Chiacchiere di donne…» pensa dentro di sé Pedro.

Ma quella insiste insiste, non la finisce più: «Riunitemi a lui, riunitemi a lui».

«E va in malora, va’» e alle 23.50 del 27 aprile Pedro ribussa alla porta della casermetta di finanza a Germàsino: «Debbo ripigliare il prigioniero».

«Eccotelo qua», lo vanno a svegliare – s’era appena addormentato da un’oretta – e glielo ridanno con una coperta di lana sulle spalle perché fa freddo.

Mussolini si rinvoltola bene bene dentro la coperta e all’1.25 del 28 aprile Pedro ritorna con le sue due macchine a Dongo e con i motori accesi si ferma di nuovo davanti al municipio.

Lì c’è che aspetta freddolosa trepidante nella notte – sotto un grande ombrello da uomo, tra due partigiani armati fino ai denti – la povera Claretta.

«Anche voi, signora?» scende dalla macchina Mussolini baciandole la mano.

«Par sempre, mi» e sale – su ordine di Pedro – nell’altra macchina. E di nuovo via verso Como, di nuovo coi motori nella notte di pioggia ancora battente.

Ma fatti poco più di trenta chilometri e arrivati a Moltrasio, sentono echi di sparatorie mentre il cielo è solcato da razzi luminosi – «Stanno arrivando gli americani? Non è che questi adesso ci fregano Mussolini?» – e allora gira le macchine e torna indietro, verso Azzano e poi Mezzegra, da certi contadini, i De Maria, che uno dei partigiani di Pedro conosce bene e da cui s’è rifugiato tante volte: «Bravi compagni» dice.

Alle 3.15 arrivano ad Azzano. Lasciano le macchine e si inerpicano sul sentiero che porta a Bonzanigo di Giulino nel comune di Mezzegra. Bussano dai De Maria, che li fanno entrare e gli preparano il caffè. Poi accompagnano Mussolini e Claretta Petacci al piano di sopra, nella camera dei figli col letto grande come si usava allora, perché sul letto grande ne entrano di più. Se li sono presi in braccio e portati tutti giù: «Buona notte» hanno detto a Mussolini e Claretta senza, pare, averli riconosciuti.

«Massimo segreto, massimo silenzio» disse loro Pedro, e venne via lasciando due partigiani di guardia davanti alla porta della camera.

Erano le quattro di mattina del 28 aprile 1945.

Mussolini e Claretta si sono sciacquati il viso e le mani al lume di candela, versandosi l’acqua nel catino dalla brocca. Di qua e di là dal letto c’era per ognuno un vaso metallico smaltato, pluriammaccato sbreccato. Non si sono detti niente. Non c’era proprio più niente da dire.

Era la prima notte in vita loro che passavano assieme.

Lei aveva trentatré anni, lui sessantadue. S’amavano – tra liti, strilla, abbandoni e appassionati riabbracci – dal 1932, da quando lei ne aveva venti.

Non hanno dormito neanche un’ora. Alle cinque i partigiani di guardia alla porta – due ragazzi di vent’anni – insospettiti da un improvviso scricchiolio hanno spalancato la porta: «Blam!» e sono piombati nella stanza con il lume a petrolio e le armi in mano.

Svegliata di soprabbalzo, Claretta s’è tirata su le coperte a nascondere il viso.

Mussolini s’è seduto sul letto: «Dai, ragazzi, non fate così. Non siate cattivi…» e quelli sono usciti.

Claretta ha detto: «Stavo sognando che ti aspettavo al bivio dell’Appia a Littoria, e c’era la luna piena».

«Qua piove, invece» ha risposto il Duce. E dopo una piccola pausa: «Non ho mai amato nessun’altra, come ho amato ed amo te», e questa volta diceva davvero.

3 Commenti

  1. Salve. Scrivo dall’ estero. Mi incuriosisce – ma in realta’ e’ piu’ che curiosita’ – la fine di Nicolino BOMBACCI: perche’ appesero anche lui a Piazzale LORETO ? Non era forse un Comunista ? I Partigiani Italiani volevano donare ai Titini anche Trieste. Ma almeno essi erano Anti Clericali…quindi paradossalmente “patriottici”…… piu’ dei Fascisti che vendettero la Laicita’ dell’ ITALIA al Vaticano con I Patti Lateranensi. Enrico MATTEI e Bettino CRAXI, cercarono, in epoca moderna , di far valere la Sovranita; Italiana: sappiamo che fine hanno fatto.

  2. Certo che che scrive, hà molta fantasia??? Sono nato a Germasino,NELLA CASA DI FRONTE ALLA CHESETTA e mio padre era colui che accudiva mussolini, faceva da mangiare e mangiavano insieme. Malgrado la mia giovane età, mi ricordo i combattimento con l`arrivo dei partigiani, ma le parole di Benito,non le dimenticherò mai . In in questi 70 anni, SI È AVVERATO CIÒ CHE MUSSOLINI MI DISSE, SUI FALSI COMUNISTI!!! Comunque è bello vedere che qualcuno rivanghi il passato, anche se le storie, LE RACCONTA A MODO SUO.

  3. Quando i tedeschi combattevano contro i russi difendendo fino all’ultimo uomo il nascondiglio di Hitler, quando i giapponesi per aver dichiarato guerra ad oltranza si prendevano due bombe atomiche…..noi italiani avevamo la vergogna partigiana. Gli uni contro gli altri uccidendo il Duce e appendendolo per le gambe a Milano. Un popolo così non ha futuro.

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