
Una sagoma di donna dalle curve armoniose che prende vita dal fumo di una sigaretta o una rosa rossa a simboleggiare il sesso di una ragazza dall’atteggiamento esplicito. Passeggiando distrattamente tra gli scaffali di librerie stracolme di volumi è impossibile non soffermarsi, tra il colpito e l’incuriosito, e prendere la tra le mani una copia di uno dei romanzi della collana dedicata alle opere di Charles Bukowski, edite da La Feltrinelli, per osservare da vicino le copertine realizzate da Emiliano Ponzi, nelle quali fotografa e racchiude, in una manciata di dettagli, tutto l’universo narrativo del celebre scrittore statunitense. Artista raffinato dallo stile evocativo e ricercato, Ponzi, è l’illustratore italiano tra i più apprezzati in patria e all’estero. Classe 1978, nato a Reggio Emilia e ferrarese d’adozione, vive e lavora a Milano, confrontandosi con realtà lavorative internazionali che l’hanno portato a ricevere premi prestigiosi come lo Young Guns Award all’Art Directors Club di New York o la Gold Medal della New York Society of Illustrators. Iconico e sofisticato, Ponzi, è stato “scoperto” oltreoceano, dal New York Times, e da lì ha iniziato la sua folgorante carriera tanto da annoverare tra i suoi clienti il New Yorker, Le Monde e The Boston Globe. Notato finalmente anche in patria collabora, tra gli altri, con La Repubblica, Internazionale, Rolling Stone Italia, prendendo parte a progetti disparati ma significativi della nostra tradizione tanto da realizzare la locandina ufficiale di Sanremo 2014, elegante e geniale nella sua semplicità, dove una donna dal lungo abito rosso è intenta a cantare sulle celebri scale che fanno da sfondo alla kermesse musicale nostrana impugnando un fiore al posto del microfono, o realizzando la versione grafica dell’Inferno dantesco dove i peccati sono racchiusi in un dettaglio, ricercata cifra stilista delle sue illustrazioni.
Qual è stato il tuo primo vero lavoro come illustratore? Penso al gran numero di mail corredate di curricula che spesso si perdono senza ricevere risposta quando ci si avvicina al mondo del lavoro.
Il primo lavoro importante è arrivato proprio grazie ad una mail inviata con la stessa attitude alla quale ti riferisci tu, con la certezza che sarebbe caduta nel nulla, ed invece è ritornata carica di significato, di speranza e anche di motivazione perché si trattava del mio primo lavoro degno di nota, per il New York Times, tra il 2004/2005, e mai avrei immaginato di avere una risposta entro un paio di ore dall’invio con già una commissione da consegnare in un paio di giorni.
Credo di essere stato aiutato dalla fortuna. Si trattava di qualcosa di abbastanza urgente. Dovevo illustrare un fatto di cronaca appena accaduto, il delitto di Perugia, e quindi tra una testata straniera, Amanda Knox americana ed io italiano, sembravo l’interprete perfetto, una bilancia tra America e Italia.
Come riesci a conciliare il tuo stile alle richieste di committenti così eterogenei come il New Yorker e la United Airlines?
Questo è un lavoro di comunicazione per cui lo stile è il mezzo che può avere una sua accessibilità in base alla committenza, ma il modo con il quale veicoli il tuo messaggio invece non può essere flessibile. Dopo aver letto il testo, lo filtro e lo ricodifico trasformandolo in immagine. In questo processo qualcosa di me resta attaccato al risultato finale, quindi sicuramente l’illustrazione, anche per clienti diversi, avrà una parte che appartiene a loro e una parte che appartiene a me. Questa è sempre la stessa, c’è sempre il mio modo di comunicare, il mio modo di risolvere un “problema”.
Segui una routine lavorativa rigida o flessibile?
Credo molto nella disciplina. Mi autoimpongo una una routine molto stretta proprio in modo da sopperire alla mancanza di struttura intorno dato che non si tratta di un lavoro d’ufficio con un’organizzazione che ti dà una scansione dei tempi. Questo veicola la qualità del lavoro ma anche il modo in cui lo concepisco.
Quanto impieghi per completare un’illustrazione?
Il tempo solitamente dipende da quando serve al cliente. Chiaramente lavorare con i quotidiani richiede un tempo più serrato. Con i settimanali e i mensili è tutto più dilatato, più “umano”.
Fammi un esempio.
Sto lavorando ad un’illustrazione per il New Yorker, su un tema anche abbastanza delicato: l’Iran. C’era una settimana di tempo così ho realizzato quattro idee in bianco e nero per cercare di inquadrare la questione, il succo del pezzo.
Solitamente prepari più varianti per uno stesso cliente?
Provo a prenderlo da diversi punti di vista, in modo da avere tagli differenti sia come contenuto ma anche come illustrazione. Dopodiché loro su questi sketch scelgono la definitiva. Ma, di solito, è auspicabile mandare al cliente solo un’immagine, perché il resto del processo l’ho già fatto io e quella è la mia scelta finale.
Le tue illustrazioni mi ricordano le atmosfere di una certa letteratura e cultura americana della metà degli anni ’50. Penso ai romanzi di Richard Yates e alle opere di Edward Hopper.
Hai azzeccato. Hopper ed i suoi contemporanei, non tanto nella pittura quanto nell’atmosfera e nell’attitude con il quale guardano il mondo, sempre discretamente, li trovo vicini a me. Lo sguardo di Hopper è come se fosse decentrato, dall’alto,come se fosse uno spettatore ma non avesse accessibilità alla scena. Questa cosa qui me la ritrovo anch’io, non tanto nello stile pittorico, quanto nell’atmosfera. C’è stato un periodo in cui ho letto molti scrittori americani, da Jim Thompson a Carver a Walter Whitman, che è ancora precedente, nei quali c’è un sentire comune, anche contemplativo se vogliamo, tipico della cultura americana. Quello che ti chiede il cliente è proprio la tua capacità di guardare il mondo con un tuo taglio e questa cosa qui se ha delle basi culturali solide non passa mai di moda.
Ascolti musica durante la realizzazione dei tuoi lavori o sei circondato da un “silenzio monastico”?
Quando penso alle idee lavoro in silenzio monastico, perché ogni input esterno infastidisce. Quando, invece, c’è la parte più esecutiva, del colore, dove l’idea ormai è già approvata posso ascoltare veramente di tutto.
Qualche nome?
Ieri stavo ascoltando Beethoven e l’altro ieri Giorgio Moroder, dipende molto dalla giornata.
In questi anni di attività quali differenze sostanziali hai riscontrato tra editori italiani e stranieri?
Fino a qualche anno fa, quando ho iniziato, c’era un divario profondo, direi quasi abissale, anche tra il modo in cui venivi percepito dagli Stati Uniti rispetto all’Italia e all’Europa. Adesso sono cambiate molto le cose. Ci sono nuove generazioni di art director e designer, molto più in connessione con le committenze per cui c’è quasi un’equiparazione.
Hai mai pensato di trasferirti negli States?
Cerco di andarci ogni anno ma non ci ho mai abitato per un periodo lungo sufficiente per farmi dire se è meglio qui o lì. Da un lato penso che se sei “fuori” crei una differenza, perché se sei “dentro” sei uno dei tanti. Da qui risulti una voce fuori dal coro e sei sottoposto anche a stimoli diversi e riesci a dare un contributo unico. Dall’altro penso che stare lì ti permetta di entrare in contatto con una community che qui non hai. Non credo però che cambi nulla a livello lavorativo. Tutto quello che ho fatto è nato stando seduto nel mio studio a Milano.
Osservando le tue illustrazioni si evince una certa malinconia mista ad elementi onirici e raffinatamente sarcastici, dove il messaggio, spesso “nascosto” in un dettaglio, richiede una partecipazione emotiva da parte di chi guarda. Quanto è importante dunque per te stimolare chi si confronta con un tuo lavoro?
É un dialogo. C’è la volontà di lasciare qualcosa, di fare in modo che lo sguardo indugi un po’ di più sull’immagine. Invece di sfogliare un giornale come una pagina qualunque faccio in modo che ci si soffermi. Questa è l’intenzione ma anche l’evoluzione di un gioco, nella misura in cui costruisco un contorno anche molto complesso e ricco di dettagli, per comunicare una cosa semplice.
Tra gli illustratori contemporanei chi ammiri maggiormente?
Tendenzialmente non ho dei nomi in mente, ma ci sono sicuramente delle mani che mi piacciono più di altre.
Cosa pensi di quella serie di illustratori e grafici che stanno spopolando oltreoceano con la rielaborazione delle locandine cinematografiche?
Ci sono tratti molto di moda. Penso al minimalismo del graphic designer attuato all’illustrazione che è qualcosa che a mio parere un po’ uniforma. Va molto di moda ed è anche di facile accesso dato che è piuttosto semplice lavorare con queste linee molto essenziali, giustificate dicendo che less is more.
Invece quale tipo di percorso ti affascina?
Quello che davvero mi interessa è il lavoro di quei colleghi in cui vedo che c’è un percorso, una narrazione ed evoluzione della loro poetica. Mi auspico che sia lo stesso per me, per durare a lungo. Proprio perché lo stile va al di là delle mode.
Dopo aver realizzato per La Feltrinelli le copertine dei romanzi di Bukowski o aver illustrato l’Inferno dantesco in versione grafica a quali altri grandi progetti di questa portata stai lavorando?
Ho quasi finito un progetto ancora più grande. Posso solo dirti che è un libro per l’anniversario della Penguin Books. Questo è il primo punto verso un’autorialità. È un libro interamente scritto e disegnato da me. Scritto ma senza parole. Dovrebbe uscire a fine ottobre, inizio novembre di quest’anno.