“Cogito ergo bum”: cioè un omino che guarda giù nel buio della canna di una pistola giocattolo; come affacciato da un burrone sta aspettando il colpo finale. Basterebbe questa opera a sintetizzare il lavoro di Francesco De Molfetta (classe 1979), tra concettuale e pop, giocato – è il caso di dirlo – con raffinata ironia, con la giusta dissacrazione ma senza il cattivo gusto a cui spesso ci ha abituati lo sgunz del contemporaneo, capace di far cozzare le idiosincrasie del linguaggio con quelle dell’immagine. Stupendi i suoi antigiocattoli, per esempio il batman/fatman ovviamente obeso; oppure le de-mistificazioni delle icone sacre, la madonnina griffata Lourdes Vuitton, o di quelle della storia dell’arte, la statuina del David di Michelangelo le cui pudenda sono coperte dalla pastiglia Golia.
Eclettico nell’uso delle tecniche e dei materiali (lo si può notare fino al 31 luglio alla Galleria Poleschi di Milano nell’antologica DEMOdé), De Molfetta è massimamente riconoscibile nella miniatura, ma non disdegna il grande formato, passando dal disegno alla fotografia, dal legno alla plastica, dalla ceramica al bronzo. Il suo approccio, agli inizi caratterizzato da un concettualismo freddo e sarcastico, sì è modificato negli anni – nota il critico Alessandro Riva – fino a una a una solarità scanzonata di taglio neopop, utilizzando colori vivaci, la cui cifra è l’uso parodistico della metafora, dal forte scarto semantico e dal rimescolamento imprevedibile e mai scontato tra significante e significato.
All’apparenza semplici e immediate, le opere di Demo sono in realtà sofisticate macchine di svelamento dei vizi e dei tic della società di massa, tra opulenza e negazione del visivo.