Quando decisi due anni fa di iniziare a lavorare su un libro che avesse per argomento Siena non avrei pensato che si sarebbe rivelato un’impresa titanica. Il reperimento delle fonti, in una delle città più divise d’Italia, è praticamente impossibile. Per uno che ti dice una versione ne trovi altri dieci che te ne forniscono altrettante, tutte diverse ovviamente. Non ci sono un sentimento condiviso della storia, una memoria collettiva archiviata alla quale attingere, un idem sentire della società. E’ come se ogni contrada, ogni vicolo, ogni gruppo d’interesse fosse un piccolo mondo a se stante.
Fu questo il motivo che proposi a Pierluigi Piccini di raccontare gli ultimi venti anni della città. A lui che di Siena è stato sindaco dal 1990 al 2001, comunista nemmeno a dirlo, dal PCI fino ai Ds, amministrando sotto tutti i loghi e i nomi che la sinistra italiana ha affiancato alla Quercia. Fu una full immersion in un mondo per me sconosciuto, un incontrare persone della politica, della finanza, delle istituzioni che avevo solo sentito nominare ma che a Siena avevano dato il loro contributo negli anni in cui la città era un piccolo modello di sviluppo e l’economia premiava.
In questi giorni per Laterza è uscito Siena brucia di David Allegranti, giornalista del Corriere fiorentino che primo degli altri comprese la portata del fenomeno Matteo Renzi tanto da scrivere la prima biografia non ufficiale e per questo meritandosi l’etichetta di renzologo ufficiale per molta carta stampata e non solo. Il suo curriculum recita anche reportage e articoli sull’allora attualità senese, un’attualità fatta di disastri bancari, default di società sportive, dissesti politici e via discorrendo. Il pane ed il companatico ottimi per ogni cronista insomma. Allegranti dalla sua ha il pregio di non essere senese, vale a dire che può contare su un occhio distaccato e non ostaggio delle logiche interne di una piccola città cinta da mura. Peccato però che ciò che in questo libro emerge è un racconto a tratti asettico, a tratti cronachistico con non poche omissioni, che non risponde all’esigenza di una lettura critica dell’accaduto. Gli ispiratori del libro sono Roberto Barzanti, il Gran Maestro del Grand’Oriente d’Italia Stefano Bisi, e altri personaggi più o meno di punta della vita senese, oggi come allora. È bene a questo punto fare un po’ di chiarezza su cosa sia davvero Siena e su ciò che regola il suo stare sospesa poco sopra, o poco sotto, dipende dai punti di vista, rispetto a quel “groviglio armonioso” che lega finanza, politica e società civile.
Tutto iniziò nemmeno a dirlo con la nomina a presidente della Banca dell’allora sindaco socialista Vittorio Mazzoni della Stella. Il suo vice era un giovanissimo Pierluigi Piccini, quota PCI, che con una staffetta istituzionale ex lege divenne sindaco fino alle naturali elezioni del 1993. Elezioni in cui per la prima volta si fecero primarie aperte. Il candidato del partito, vale a dire degli apparati della città, era proprio Roberto Barzanti. Tra i due la spuntò Piccini con largo consenso. Dibattiti pubblici e televisivi sui programmi e con gli altri candidati – un po’ il concetto dello streaming grillino, solo con venti anni di anticipo – e infine la creazione di una giunta formata da personalità della società civile, antesignana di quella che sarebbe diventata la vulgata prodiana dell’Ulivo (mettendo anche dentro, non a caso, le anime socialiste e popolari della città). Il patto sociale passava appunto per la politica, anzi, di più: passava attraverso le istituzioni, dacché, da buon kantiano, per Piccini c’è una predominanza delle istituzioni sulla politica. Siena negli anni Novanta è il laboratorio amministrativo di un bel po’ di cose: nasce uno statuto della Fondazione Monte dei Paschi, la banca da istituto di diritto pubblico diventa SPA e quindi va quotata, il sindaco non crea ingerenze sulla finanza ma dà indirizzi, poiché il Montepaschi è quella banca territoriale, la seconda banca più antica d’Italia, che può diventare per l’Italia un vero e proprio esempio. Altro che tanti bei discorsi sulla banca etica. Il modello di sviluppo era semplice: un polo federativo aggregante, dopo che Piccini si era confrontato anche con l’allora dg dell’Ente, Divo Gronchi, e grazie al quale il Monte fu in grado di effettuare brillanti operazioni come la fusione con l’Agricola Mantovana (fu centrale la cooperazione delle direzioni generali dei due istituti, Gronchi per Siena e Mario Petroni per Mantova, oltreché a personalità di primissimo piano dell’imprenditoria nazionale dell’epoca, come Steno Marcegaglia).
Il Monte sulla fine dei Novanta aveva un problema di promotori finanziari: l’istituto che all’epoca era all’avanguardia su questo tipo di retail era Banca 121, costruita con tali caratteristiche dall’ingegner Vincenzo De Bustis, che prese una banca locale e ne fece – per l’epoca, numeri alla mano – un istituto visionario. Fu fatta anche questa operazione, De Bustis arrivò a Siena. Il Monte era quotato in borsa, la Fondazione aveva un suo statuto, i Novanta erano finiti e nel 2001 scadeva il secondo mandato di Piccini. Era lui il candidato naturale alla guida della Fondazione. C’erano stati accordi per il Banco Popolare di Novara e per l’Antonveneta. Mps poteva essere una banca federale dell’Italia centrale che rispondesse alle esigenze dei ceti produttivi e delle famiglie. Il partito romano questa visione non l’ha mai voluta, a loro interessavano le grandi acquisizioni: BNL in primis. D’Alema voleva la banca di via Bissolati ma Piccini non gliela garantiva. Il 2001 fu l’anno del regolamento dei conti. A Piccini fu preferito Giuseppe Mussari, molto vicino all’ala dalemina del partito, e fu così che inizia l’epopea degli anni Duemila, una storia bancaria tutta italiana fatta di scandali e derivati, acquisizioni incaute e nomine discutibili.
Il marcio di Siena, per così dire, è vero che sta tutto in quegli anni, ma per onestà intellettuale bisogna ripercorrere le azioni di tutti i giocatori, locali e non, che hanno portato a tanto. Allegranti si ferma alla superficie consegnando un racconto focomelico e timido, affronta l’incendio dai contorni mai risolti dell’economato della Curia e rintraccia nell’impunità dei colpevoli una forma mentis che accompagnerà tutte le vicende a venire riguardanti la città: il crack della Mens Sana Basket, del Siena Calcio, della Banca stessa quando un incauto Mussari decide nel 2007 di accontentare qualcuno e comprare Antonveneta pagandola troppo (8 miliardi di euro) e non rendendosi conto di un debito che avrebbe dovuto saldare ad Abn Amro di 10 miliardi. Aumenti di capitali su aumenti di capitale, derivati dai nomi ellenici (triste presagio) hanno poi portato la banca ad oggi, sotto nuovo (inutile, dicono gli esperti) aumento di capitale, con un presidente dimissionario e con un partito, il Pd di Renzi, che nemmeno più fa caso a Siena. Dall’entusiastico “Abbiamo una banca?!” di Fassino ad un menefreghista “Abbiamo una banca…” dei tempi postmoderni.
Certo, nel racconto di Allegranti c’è quel sentimento senese di sentirsi onnipotenti coi soldi del Monte, ma oltre alla descrizione ingiustamente caricaturale non si va al nocciolo del problema. Siena è la città in cui David Rossi, manager della comunicazione di Mps, braccio destro del presidente Mussari, è morto. C’è una Fondazione che nel 2001, anno in cui lascia Piccini, valeva 14 miliardi di euro a valore di libro: oggi vale qualche centinaio di milioni di euro e sta nel patto di sindacato della Banca con qualche spicciolo percentuale. Prima era al 51%. Allegranti liquida il lavoro di ricostruzione su Siena fatto da Pierluigi Piccini e dal sottoscritto come “tendenzioso e autoelogiativo”. Può darsi che nel ricordare il proprio passato chiunque metta quel pathos che non lo rende certo eccessivamente critico, ma parlare degli ultimi 10 anni di Siena senza affrontare i casi Mussari e Profumo (i bilanci sono pubblici, ad Allegranti li avrei forniti volentieri), della morte di David Rossi (la perizia medico-legale ad Allegranti l’avrei spiegata in termini comprensibili anche per i non addetti ai lavori), della finta rottura del groviglio armonioso in favore di un sindaco “renziano”, l’attuale Bruno Valentini, che però ha fatto l’accordo con l’ala non renziana del partito, è sinceramente grottesco, oltreché inutile.
Ne risulta un racconto di fatterelli minori, con personaggi e comparse che alla fine poco spiegano l’accaduto e non indaga sui punti interrogativi grossi come case che ancora stanno a mezz’aria in città. Di sicuro non è autoelogiativo, ma altrettanto tendenzioso, pericolosamente tendenzioso, questo sì.
E come in ogni noir di provincia, se Siena Brucia finisce che è stato il maggiordomo.
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