Abbiamo spesso visto Giovanni Frangi alle prese con la natura, questa volta l’artista torna a dialogare con essa addentrandosi in quella parte più ribelle, caotica e pericolosa che conosciamo: la giungla. Frangi riesce ad addomesticarla senza fatica mediante la sua “legge”, profondamente ponderata e soppesata, che rende ogni cosa calma e placida, quasi immobile e pronta ad essere sapientemente dipinta, catturata nel colore ad olio. La maestria di Frangi si realizza così in un perfetto bilanciamento tra qualità espressiva e chiarezza concettuale, derivante da una profonda e raffinata ricerca che attinge dai suoi progetti più recenti.
Per muoversi nella giungla è necessario avere zampe che non fanno rumore, occhi che vedono nell’oscurità, orecchie che odono il vento nelle tane e zanne taglienti per cacciare», così si apre il testo del curatore Michele Bonuomo. In questa dimensione di esoticità calma e placida è possibile per l’artista vedere un parallelismo con la società odierna?
Bisogna imparare a leggere tra le righe. L’apparenza inganna. Anch’io a volte mi confondo. Da diversi anni il mio percorso, se così si può dire, è costellato di episodi riguardanti la natura, e il mio essere affascinato dal mondo naturale non ha mai a che fare con un desiderio agreste. Il mio lavoro nasce da alcune suggestioni di immagini, da queste cerco di elaborare qualcosa di diverso che forse avevo pensato di notte e mi sono reso conto nel caso de La legge della giungla quanto sia stato importante che quelle immagini fossero composte da piccoli frammenti, una natura scomposta in una sorta di puzzle. Mi sembra che sul tavolo ci fossero tutti i pezzi sparsi. Questo è abbastanza chiaro ad esempio in A Time to Go Away o in A Time to Remain, oppure ancora di più nei quadri che rappresentano le ninfee. Non esiste un vero centro d’attenzione e lo sguardo è portato a girare intorno e non si sa bene dove andare. Il nero di fondo della tela rappresenta l’acqua, o forse no. Un artista infatti si pone un obiettivo e lo scarto tra il desiderio di partenza e il risultato raggiunto è quello che rende tutto così speciale. Non è un meccanismo automatico. Anzi questo “fallimento”, lo scarto tra l’idea e il risultato, proprio nel senso di non riuscire a raggiungere l’obbiettivo diventa invece l’accelerazione necessaria . Un quadro non si esaurisce mai in se stesso. Cerca energia e a volte la trova. Dunque il nero che avrebbe dovuto rappresentare l’acqua, in realtà non la rappresenta. Ci ricorda il passato, il vento e il deserto. Si è rivelato forse un nero cosmico, le particelle che compongono i quadri rappresentano frammenti di un universo scomposto, le foglie sono astronavi, e noi viaggiamo sugli ufo…. la frammentazione ha creato un rapporto simbiotico tra la città, il cielo, tra lo spazio virtuale e l’inconscio. La natura che respira è entrata in città e ha creato in questo modo singolare un dialogo impossibile. Come le greggi di pecore quando d’improvviso ci sbarrano la strada e non sappiamo bene cosa fare e tiriamo su i finestrini e aspettiamo che passi.
La “legge” di Giovanni Frangi impone un cuore impavido e leale che permetta di addentrarsi nella giungla con assoluta onestà artistica ed intellettuale, la grande scommessa di questa mostra sembra essere quindi affidare alla disciplina della pittura la rappresentazione di quella natura anche apparentemente invisibile: «l’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che spesso non lo è», come asseriva Paul Klee. Come è stato possibile giungere ad un perfetto equilibrio tra chiarezza concettuale e qualità espressiva, tra astrazione e figurazione?
Sono un pittore che ha bisogno del contatto diretto della realtà per trovare la sua ispirazione. Mi affascinano i luoghi. Le giungle. E quando mi sono cimentato in un lavoro astratto mi sono perso. Non sapevo dove finire e continuavo senza arrivare a un obbiettivo. Credo che la mia grammatica sia diversa. Immagino che Alberto Burri, supponiamo, quando cominciava a dipingere un quadro obbediva a un logica che non mi appartiene, ragionasse in termini di equilibri di forme o di spazi mentre nelle mie opere gli equilibri nascono piuttosto da una forte necessità descrittiva; io voglio descrivere, amo raccontare una determinata situazione, sono un pittore realista, sebbene spesso realizzi opere non immediatamente comprensibili, quindi astratte. Infatti dice Klaus Mehrkens l’arte è sempre astratta, Come le bottiglie di Morandi. In questo senso l’esperienza di Richard Diebenkorn è molto importante per capire quel nodo, sta sul filo del rasoio e per me rappresenta la più interessante evoluzione dell’espressionismo astratto. A Londra proprio adesso è possibile vedere alcuni suoi capolavori alla Royal Accademy. La serie di Ocean park sono delle opere assolute nella loro purezza con cui ci fanno percepire quella luce particolare della costa del Oceano Pacifico…