Castellucci, l’iconoclasta laureato

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Romeo Castellucci

Accademia avanguardista. Da qualche giorno Romeo Castellucci è dottore in Discipline della Musica e del Teatro, l’alloro gli è cascato sul capo tramite l’“Alma Mater” di Bologna. L’iconoclasta, l’avanguardista, il fondatore (insieme alla sorella Claudia e alla moglie Chiara Guidi, una genia di speleologi della sapienza) della Socìetas Raffaello Sanzio, insomma, l’antiaccademico onorato dall’accademia… «beh, cavalcare la contraddizione mi sembra una cosa piuttosto significativa», dice lui, tono nobile, l’artista italiano più ambito d’Europa, in una rara fetta di tempo libero.

«Tuttavia, non rinnego affatto l’ambito accademico, lo studio è fondamentale per chiunque voglia essere consapevole. Mi sono sempre mosso fuori dalle istituzioni, per lo meno in Italia, ma non sono certo il diavolo in quell’ambiente, per cui il riconoscimento non mi disturba, anzi». La laurea giunge al termine di un progetto culturale specifico (“E la volpe disse al corvo”) che Bologna, «la città della mia formazione», ha dedicato a Castellucci; come sempre l’accademia canonizza ciò che ultranoto da tempo: la Raffaello Sanzio esiste dal 1981, è una delle compagnie teatrali più riconosciute del Paese (anche economicamente: nel 2014 il Fus ha finanziato la Socìetas con 215mila euro, decisamente l’impresa di produzione più importante dell’Emilia-Romagna, per altro la Regione, dati 2013, ha foraggiato l’attività teatrale con 72mila euro).

Nelle motivazioni dicono che ha cambiato «profondamente il modo di pensare e di fare il teatro nella nostra epoca»: cosa vuol dire? «Non lo so. Non ho una distanza tale dal mio lavoro da poterlo giudicare». Aforisma da artista. I francesi sono arrivati prima, hanno già cinto d’alloro Castellucci, che dal 2002 è “Chevalier des Arts et des Lettres” (lo sono, per dire, Paolo Conte e Michael Cimino, Leonardo Di Caprio e Salman Rushdie), adesso gli han dato la responsabilità di platino di aprire la stagione dell’Opéra National de Paris, con la messa in scena del Moses und Aron di Arnold Schönberg, «che incide un Mosè dalle accezioni più umane di quelle del Mosè biblico. Il dubbio di Mosè è colto come una occasione drammatica». E lei, cosa esalterà? «Il linguaggio. Con Mosè si ha l’avvento della scrittura, la comparsa del libro, l’invenzione potentissima della cancellazione delle immagini. Tutti eventi che sconcertano». Oltre la Bibbia (affrontata con Freud tra i denti), Castellucci mastica Eschilo: al prossimo, parigino, Festival d’Automne, «riprenderò l’Orestea, dopo vent’anni». 

L’inutilità come opera d’arte. Si entra in un lavoro di Castellucci come in un violento sacrario. Ma che senso ha rappresentare nell’era dell’orrore quotidiano? «L’esperienza estetica ci è necessaria perché è inutile: non serve a migliorare la vita, non fa più buone le persone. Però può dare coscienza allo sguardo, ci congiunge a ciò che guardiamo». Pausa. Sigillo: «Guardare alla tragedia, così, non è più un gesto innocente». La voce magra, minima di Castellucci sembra quella di un oracolo.