Chi si è trovato al Teatro Argentina, alla fine di marzo, avrà pensato che autori e organizzatori della serata se ne freghino dell’Expo 2015. Eppure l’evento era proprio dedicato alla kermesse dell’anno che sta attraversando il suo duro Monopoli tra le caselle “accelerare i lavori” e “inchiesta, torna all’inizio”.
Zetema e Teatro di Roma hanno cercato il meglio della Roma moderna per celebrare l’Expo. Dopo molta ricerca, si sono fermati, con riluttanza, al quartiere dell’Eur e alla sua epica nascita in occasione dell’Esposizione Universale capitolina (che non si tenne mai). Proprio ora che il Campidoglio se ne frega del tutto della sorte del quartiere dove è fallita la società Eur spa lasciando incompiuta la Nuvola di Fuksas.
Il milieu dell’Argentina non ha mai amato l’architettura del regime, né le relative celebrazioni, preferendogli le borgate pasoliniane, oggi tornate alla grande nella variante sfacelo dei palazzi mostri coperti di spazzatura. Che si proiettasse, per celebrare la kermesse mondiale della buona alimentazione, il documentario Me ne Frego! basato sull’archivio Luce-Cinecittà, è apparso però naturale già dal titolo-calembour.
In una città che se ne frega storicamente del mangiar sano, autori che se ne fregano degli architetti dell’Eur, hanno colto la palla al balzo per coinvolgere gli organizzatori nel fregarsene delle grandi imprese di Milano, città rivale per antonomasia. E soprattutto invitare i giovani a fregarsene dei vanitosi del Me ne frego.
Infatti il documentario montaggio, già portato al Festival di Venezia, deve l’ispirazione alle preoccupazioni della docente Valeria Della Valle, cui sembra che i giovani non sappiano né dei tentativi del regime fascista di italianizzare la lingua, né del “me ne frego”, slogan dannunziano antigiolittiano, poi convertito in parola d’ordine contro le sanzioni. Non che le due cose (italianizzazione e antisanzioni) abbiano avuto politicamente molto in comune fra loro; ma tant’è, ogni occasione, è buona per dire peste e corna del lontano tempo fascista anche mentre se ne gloria l’architettura e l’urbanistica.
La Della Valle ha ragione: i giovani sono tornati al “me ne frego”. Lo dice Gaga a Madonna, Se lo tatua Emma Marrone (nel francese Je m’en fous) quando il fidanzato Stefano le preferìsce Belen. “Is mir egal” (me ne frego in tedesco) è un grosso successo del duo rapper Der Tobi & Das Bo. Addirittura nel pieno centro capitolino ci sono tre boutiques Je m’en fous. La professoressa ha anche torto però perché il menefrego è universale. Lo diceva l’Ortensia di Feydeau. Era il cavallo di battaglia, nell’America antifascista roosveltiana, del Clark Gable di Via col vento: my dear, I don’t give a damn.
La repressione delle parole è cronaca, altro che storia. Il digital divide nasce innanzitutto dalla dittatura degli anglicismi tecnici, tanto che l’information literature resta un concetto di controversa traduzione. L’Italia, terzo pagatore in Europa, tutt’oggi non merita un sito web, un documento, una spiegazione di Bruxelles in italiano.
La Rai alfabetizzò il paese, diffondendo l’italiano in un paese analfabeta. Non fece che proseguire le campagne dei megafoni e radio del regime che martellavano termini italiani nelle teste di persone abituate a mille dialetti. Prima di quelle campagne, i potenti se ne fregavano sul serio delle capacità di comunicazione dei contadini.
Lo swing non divenne mai “slancio” né il cocktail “arlecchino”, ma restarono parole come ascensore, autocarro, combinazione, cornetto, frittata, manifesto, prenotazione, pillola, schede, spesso perché le cose evocate in altre lingue si materializzavano davanti agli occhi di chi mai le aveva viste.
Anche ai politici di oggi potrebbe piacere quella campagna. La Boldrini non potrebbe che restare affascinata da Sorellanza, termine ideato da Mussolini per indicare l’Onu del suo tempo. Altri non darebbero torto al “Barbaro dominio” di Monelli, citato nel documentario, quando ricordava che “I popoli forti impongono la loro lingua”.
Ora che questi popoli se ne fregano dell’Italia, all’Argentina se ne fregano del tema da celebrare. Tanto di Expo ce n’è uno solo che se ne frega di loro. Me ne Expo.