A Piramide Cestia, treffpunkt romano verso lido mare, l’Ostiense delle bande e dei negozi etnici notturni ed il Colosseo, si ferma un camion, pieno di meloni. Li vendono in due leccesi per ore, ad un euro. Niente sanità, niente scontrino, niente licenza.
A occhi chiusi tornano le immagini delle Mosca sovietica e eltsiniana dove era un classico l’arrivo di camion di cocomeri e meloni di contrabbando, introvabili e\o poi venduti a peso d’oro nei negozi. Merce del contrabbando spicciolo e diffuso che un tempo era il segno distintivo della Russia e della Turchia. In Putinalandia ora ceceni e giorgiani non arrivano più alle stazioni metro del giardino dorato o dell’anno 1905, nel secondo cerchio cittadino; al massimo si fermano ai treni periferici dell’eletrichki, molte decine di km da centro. Segni di degrado sovietico sono invece oggi presenti qui.
Accanto al camion, sui muri biancheggiano lugubri antichi manifesti di boicottaggio della Turchia. Stanno lì da anni, incollati dal movimento kurdo o da qualche loro amico. Chi passa non capisce, li confonde con le proteste contro la Coca o gli hamburger e si chiede di che prodotto parlino. D’intorno kebab, pizza e burghy si alternano in un flusso continuo miasmoso ed invitante, caldo ed appiccoso, melting pot di carni improbabili frullate, specchio dell’impossibile multietnismo e multiculturalismo in cui l’Europa vive suo malgrado.
Eroe del passato musicale, uno Springteen, bisnonno, blocca la città con il concertone del Circo Massimo. Dice la rado che i ragazzi siano in delirio. Veramente i gusti sono fermi da 30 anni? Mentre suona, muoiono metà centinaio per ferrovie degne di un secolo fa, più di 100 per l’ultimo attentato islamista, più di duecento per un colpo di stato che in poche ore butta nella polvere il sultano turco Erdogan e poi lo lancia alle stelle grazie alla rivolta popolare che disarma l’esercito.
Chissà perché tutti a parlare di Tien Amen, piazza cinese dove l’esercito non disarmò affatto. La sinofilia fa dimenticare che l’ultimo impero capitalcomunista è sempre la più grande dittatura del pianeta.
Ad Ankara e Istambul si sono piuttosto ripetute le scene moscovite dell’Eltsin, non ancora eletto presidente, che sventava il colpo di coda dei generali sovietici. Il suo golpe democratico prevalse. Anche in Turchia, si sono misurati due golpe, quello militare e quello presidenziale che ora galoppa al ritmo di migliaia di arrestati, giudici generali e burocrati. E che ci ricorda che senza arresti non si fa nessun presidenzialismo.
L’instant golpe ha suscitato molti sospetti, d’altronde il sultano Erdogan non convince mai nessuno fuori dal suo paese. A Mosca russi e americani speravano tanto nella caduta del presidente demomusulmano; i russi che odiano l’Eltsin di ieri e gli americani che lo rimpiangono.
Tutta l’Europa era pronta a non concedere ad Erdogan nemmeno asilo politico. Poi in poche ore, dopo una figuraccia memorabile, ha balbettato rossa in faccia, tutto il suo appoggio. Forse è stato solo uno stress test per svelare al demomussulmano il volto dei veri amici, gli israeliani ed i sauditi, e dei veri nemici, tutti gli altri.
Il camion parasovietico in salsa pugliese se ne va. Torna al Sud dalle ferrovie ed altro ottocenteschi, dove ci si interessa solo di capimafia.
A bordo ha qualche clandestino, forse tunisino, forse turco, che si tengono lontani dallo Zar e dal Sultano, terribili dominatori di uomini, che non ubbidiscono più alla Nato occidentale, nè al nostro vortice dell’assenza del potere, tra i miasmi carnali multiculturali, dove i potenti, inclusi quelli della contestazione, pensano solo a rimpinzare sé e famigli.
Sperando che nel mix di carni, non finiscano anche le teste mozzate di Palmira, Nizza, Istambul