
Anni fa un critico di rara intelligenza e di squisito sense of humour come Ugo Ronfani in un convegno sulla drammaturgia italiana del Novecento si lamentò che nessuno tra i relatori presenti avesse mai sollevato l’ipotesi di una continuità non solo di grande mestiere teatrale, ma di consonanza tragicomica tra l’opera pirandelliana considerata in toto come tragicomica e quella di Eduardo che a una disamina ravvicinata gli parevano più contigue che mai, per vicinanza di leit motives e sconsolata tenerezza per la debolezza umana.
Un fatto che nel corso di questi ultimi tempi sempre più clamorosamente constatiamo rivedendo e rileggendo i capolavori del grande siciliano alla luce dell’estro fantastico del cantore di Napoli. Come accade nella bella edizione firmata da Giuseppe Di Pasquale, intellettuale siciliano come altri mai oggi alle prese con un testo come L’uomo, la bestia e la virtù finalmente riletto pur nell’impeccabile fedeltà al lessico di chi scrisse la fortunata commedia all’ombra di quella disillusa pietà per le debolezze umane testimoniata dall’autore di Napoli milionaria. Mentre in passato infatti teatranti illustri come ad esempio Carlo Cecchi avevano messo in scena la farsa tragica del professor Paolino disperato per aver messo incinta la signora Perella senza la minima possibilità di attribuire al marito della sua amata il frutto ingombrante di tanta colpa, oggi l’edizione animata da cima a fondo dall’estro caricaturale di un dotatissimo Geppy Glejeses, rimette tutt’uno al suo regista le cose a posto. Facendoci finalmente capire che, sia pure senza saperlo, il signor Pirandello anticipava De Filippo. Sia nel marchingegno insieme comico e tragico della farsa che nella conclusione tutt’altro che pacificante di questo aneddoto. Che, moderno come non mai nel falso happy end della conclusione, ci induce ahinoi a pensare all’indissolubilità del legame coniugale tra la donna colpevole e quel consorte capitano di lungo corso. Che forse ha già capito tutto in anticipo costringendo Paolino a un menage a trois che per tutta la vita lo obbligherà a sottostare ai suoi ordini condizionandone in modo irreparabile la libertà .
Un po’ come accadeva in certe farse francesi tipo La parigina di Becque per intenderci ma nello stesso spirito che poi avrebbe condotto Eduardo a scrivere Questi fantasmi. Già la scena spoglia, cosparsa inizialmente di seggiole come nella famosa piece di Ionesco ci aveva messo in guardia amabilmente con una strizzatina d’occhio tra le più sulfuree. Invitandoci ad andar oltre quel defilè di tre maschere nude tre che da sempre, anche nelle edizioni migliori del testo, in qualche modo ci aveva afflitto sembrandoci verosimile si’ ma incompleto. Dato che non di farsa si tratta ma di un accomodamento spietato qui si tratta, ancor piu’pericoloso ed infame di quel divorzio all’italiana prospettato con livore da Germi nel suo celebre film. Col Capitano del bravo anzi bravissimo Lello Arena che qui tra un riso ironico e l’altro si comporta come un filosofo seguace di Epicuro ben assecondato dalla partner di entrambi ovvero la signora ibterpretata con estron strafottente da Marianella Bargilli. Uscita vincente da quella che, secondo Paolino, doveva essere un sacrificio alla morale borghese in vista del quieto vivere. Mentre per lei e’stata invece una notte amorosa coi fiocchi che l’ha finalmente compensata della timida goffezza di un amante dimostratosi alla prova dei fatti niente piu’che un succedaneo di quel consorte fin troppo ma solo a parole denigrato. Che dall’agone esce infatti vittorioso riducendo il concorrente al misero ruolo del compiacente amico di famiglia che mai riuscira’a scalfire tanto eccelso connubio. Con buona pace del pubblico esemplato sul palco dal ruolo della serva. Mezzana confidente cui Renata Zamengo presta una maschera di cinica ambiguita’. In uno spettacolo da vedere e rivedere per goderne fino alla radice l’amaro moralismo che tra le risa si insinua come la cicuta di Socrate. A Roma, Teatro Quirino, poi in tournee.