La maleducazione sessuale in un musical

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La prima del capolavoro di Frank Wedekind, Risveglio di primavera, scritto nel 1891 dal più geniale eversore della macchina sociale, ebbe luogo solo nel 1906 ad opera di Max Reinhardt. Ci sono voluti più di cent’anni perché questo magnifico testo, che punta il dito sui guasti della maleducazione sessuale agli albori del Ventesimo secolo, venisse universalmente accolto come un manifesto. Ovvero come il sintomo inquietante che propugnava la liberazione dell’eros dai meccanismi coercitivi di una borghesia spaventata dalla  giovinezza al potere, che rifiutava ogni tipo di condizionamento nella sfera privata e puntava alla rigenerazione dell’uomo come homo sapiens totale, unico arbitro delle proprie scelte come del proprio destino.

Da noi questo testo inquietante arrivò solo nei primi anni Settanta per opera di un gruppo di giovanissimi teatranti, la cui sigla operativa, prima di tramutarsi in una ditta che fece epoca, era guarda caso La Fede, in senso ironico e provocatorio, e i cui promotori erano il regista Giancarlo Nanni e la primattrice Manuela Kustermann. Fu un successo di tali proporzioni da rasentare addirittura l’isterismo. Da allora si moltiplicarono a macchia d’olio le diverse edizioni di questo copione, fulcro della rivolta giovanile di una generazione. Da quella del milanese Teatro dell’Elfo fino alla riproposta di Lorenzo Amato e alla decisione, poi rientrata, da parte di Giorgio Strehler di rappresentare questo sintomatico Risveglio al Piccolo Teatro per contrastare il successo travolgente di un’avanguardia teatrale al potere che allora prese polemicamente il nome di Scuola Romana.

La storia della piccola Wendla che, ignorando la macchina sessuale, resta incinta di un coetaneo e muore dissanguata nel corso di un procurato aborto, mentre tra i suoi compagni di galera, uno finisce in riformatorio per aver scritto un libello di poche pagine sul coito e un altro scopre la spinta travolgente dell’omosessualità, per il potere maledetta e deviante, prima che il testo si concluda tra i candidi cippi di un cimitero, ha fatto epoca. Anche e soprattutto per la presenza, nello splendido finale, di un signore mascherato, emblema romantico della liberazione da ogni condizionamento, interpretato dallo  stesso autore Frank Wedekind la sera della prima rappresentazione, in polemica con le istituzioni allora vigenti, che spezza una lancia a favore di  uno dei cosiddetti colpevoli della trasgressione guidandolo, al di là dell’esistenza regolata da un diktat inesorabile, verso i Campi Elisi di un’eterna giovinezza.

Era fatale che a questo punto, con l’avvertenza che ormai si parla del 2007, prima o poi del leit motif si impadronisse anche Broadway per confezionarne l’ennesimo musical. Che per fortuna, grazie alle musiche suadenti di Duncan Sheik e al magnifico allestimento dell’Atlantic Theater Company, non solo non tradì l’assunto princeps del play originale ma addirittura ne completò paradossalmente sia l’iter che l’incidenza tramutando l’assunto in prosa in una sorta di melodramma al quadrato. Ossia nella fremente presa di coscienza della generazione dei figli nei confronti della generazione codina e reazionaria dei padri che, in ossequio ai meccanismi del potere costituito, sono disposti a sacrificare i propri figli sull’altare delle convenzioni al potere. Fu a Broadway un  successo di tali proporzioni da tramutare l’allestimento in una hit che fece pronunciare a un critico la storica frase: «Risveglio di primavera è per il teatro di oggi ciò che è stato Easy rider per il cinema della mia generazione».

Ora il Todomodo Music-All, che ne ha appena varato con un coraggio misto all’emulazione l’edizione italiana, non ha potuto che muoversi su altre sponde, sensibilmente diverse sia per il formato scenico che per l’assunto statutario della regia originale. Non certo per colpa dei suoi valorosi promotori, ma per due incontrovertibili ragioni: la prima per la mancanza di un vero e proprio palcoscenico destinato in Italia al musical, a meno che non si tratti del Sistina a Roma o del Nazionale a Milano (il quale, tra l’altro, predilige, tra i prodotti di buona fattura, solo quelli di patina commerciale spesso e volentieri già assimilati dal cinema di consumo), secondariamente in vista del condizionamento dei costi esorbitanti per questa produzione di marca nazionale, con la conseguenza di rinunciare all’impatto spettacolare di partenza magari recuperando, come qui accade, con una stesura da teatro da camera.

L’orchestra viene sostituita da un gruppo di musicisti dotati quanto esperti che, sotto una cupola da caffè concerto rizzata sulla destra del palco, si prodiga con entusiasmo mentre la compagnia, che recita in italiano ma canta in lingua originale confortata dalla traduzione a vista delle songs in un  simbolico color verde primavera che si rifà con pudore e delicatezza al lessico degli antichi quaderni di scuola che ci siamo lasciati alle spalle in barba a quegli adolescenti, di ieri come di oggi, che deplorevolmente ci si ostina a considerare eterni adepti del giardino d’infanzia nonostante la maturazione intervenuta nel frattempo nel fisico come nella mente della nuova generazione. Il quadro attorale, degno di autentica lode per la coerenza dell’inciso e la qualità degli interpreti, va incondizionatamente ammirato per l’impressionante qualità dell’insieme con un applauso a tutti e a ciascuno.