L’attrice italiana che da anni lotta per portare sul palcoscenico spettacoli di qualità
Se ancora si potesse parlare di grandi attrici che, con una pazienza e un disinteresse degni di lode, rifiutano copioni di facile consumo e lottano da anni per un repertorio di qualità a beneficio degli autori di ieri come di oggi e dei registi più singolari e intelligenti del nostro paese, non c’è dubbio che la palma dovrebbe essere attribuita a Elisabetta Pozzi. Che, tranne quelle rare occasioni in cui per continuare a lavorare si è costretti ad accondiscendere all’imperativo del mercato, si è sempre battuta con una coerenza che le fa onore portando in Italia, auspice un autore di genio di nome Manfred Karge, la strana larva di Max Geriche. Ossia una donna obbligata, per vivere, a fingersi uomo senza la minima possibilità di riassumere il ruolo naturale che le compete.
Per non parlare di quando, addirittura ai suoi primi esordi, creò accanto a Giorgio Albertazzi l’impervio ruolo della principessa Alma nel Re Nicolo di Frank Wedekind. Passando, tanto per rinfrescarvi la memoria, dall’ibseniana Donna del mare al revival di una delle più belle commedie di Brusati ossia Il benessere. E persino alla riproposta in chiave critica della dannunziana Francesca da Rimini”agli ordini di Aldo Trionfo, eccetera eccetera.
Perché si potrebbe continuare a citare all’infinito le sue interpretazioni, come sempre toccate dalla grazia. Che vanno dagli autori contemporanei, come Enquist di cui rappresentò I serpenti della pioggia, o di una tra le più difficili sfide che si possano proporre a un’attrice in giovane età, come è stato il caso, tempo fa, della diabolica Alice, sposa infedele votata all’assassinio del misero consorte Arden di Feversham, nello squisito capolavoro di ignota mano creato da uno sconosciuto poeta elisabettiano.
La mia, credetemi, non è paranoia critica ma un commosso lascito di gratitudine nei confronti di un’attrice che non ha mai risparmiato a se stessa le sfide che, nella maggioranza dei casi, nessuna tra le sue colleghe ha mai osato affrontare. Emergendone ogni volta grazie a un talento in continua ascesa e a un incessante impegno critico. Grazie a quell’immaginario che, nella carriera di un attore, si chiama sprezzo del pericolo e commovente intuizione delle pieghe più riposte della psicologia che anima la figura che, espulsa dalla pagina, si impone all’attore con l’autorità di un personaggio che cerca, per poche ore di palcoscenico, di approppiarsi della vita della ribalta. Il che, nel caso di Elisabetta, significa non lasciar mai intentate le molteplici coordinate di pensiero che sgorgano dalle battute, le sole che costituisco l’ossatura della parte in cui si deve trasfondersi in due ore che riassumono, davanti al pubblico, un’intera esistenza.
Tale sarebbe, tra l’altro, l’intelligente variazione sul tema della Diva, l’ultima tessera appena varata dalla Pozzi pochi giorni fa sul palco del Teatro Sala Fontana di Milano. Dove, prendendo spunto dal celebre romanzo La diva Julia di William Somerset Maugham che diede origine qualche anno al film di Istvan Szabò che consacrò all’attenzione generale Annette Bening.
Ebbene Elisabetta ha tratto da questo affresco satirico in cui protagonista un’immaginaria star della scena d’oltre Manica che, vittima di una crisi depressiva, supera brillantemente l’impasse stravolgendo, la sera della prima, il mediocre copione che le è stato assegnato, un assolo tragico in cui la solitudine, nutrita della malinconia degli anni che passano, trionfa della mediocrità della propria esistenza.
Misurandosi, in camerino, col proprio specchio. Ovvero con la sarta di compagnia la qualee, senza dire parola, assiste come una maschera impotente agli accessi che divorandola minacciano la padronanza della sua ragione. Fin dall’inizio dello spettacolo quando, in vestaglia, appena desta fa di tutto per mandare a monte la performance sezionando rabbiosa la sconcertante altalena di delusione e di rimpianto cui si è ridotta la sua vita, per non parlare delle battute, provenienti da altri copioni, che la insidiano ad ogni pie’ sospinto e ai ricordi in libertà che le escono di bocca come sinistri presagi del suo disfacimento, la Pozzi di questo carattere – emblema del vissuto attoriale – fa un’allarmante sintesi del teatro stesso. Cioè della Croce e Delizia di chi dedicandosi alla recitazione ha fatto della scena il solo abitacolo in cui gli è consentito vivere. In un memorabile monologo che sarebbe grave peccato sottovalutare perché è da vivere, da parte dello spettatore, come il più grande regalo che un attore oggi possa offrire a un pubblico il quale, divertendosi, intenda riflettere sul teatro non solo come cultura ma come totale quintessenza liberatoria.
> La diva (da “La diva Julia” di William Somerset Maugham)
adattamento e regia di Laura Sicignano, con Elisabetta Pozzi
Milano, Teatro Sala Fontana e in tourneé