Da vecchi libri, fontane di parole: come acqua le pagine

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Jukhee Kwon, coreana ma italiana d’adozione, usa le forbici a mo’ di pennello. Unisce una raffinata poetica a una dimensione estetica tutta orientale

 

Jukhee-KwonIl mercato dell’arte contemporanea sta crescendo a ritmi vertiginosi. Le aste internazionali, soprattutto a Londra, battono cifre stratosferiche anche dei pezzi italiani. Basti pensare ai record di svariati milioni di sterline di Manzoni, Castellani e poi Bonalumi, Scheggi, Schifano… Anche il panorama dei cosiddetti artisti giovani sta crescendo grazie alla sagacia di gallerie internazionali che fanno un’operazione di scouting continua nel mondo, specie delle culture emergenti come quelle asiatiche o sud americane. Nello specifico il sistema del far est risulta molto interessante perché l’arte contemporanea viene contaminata da tradizioni preesistenti ed estranee a quella occidentale, con risultati estetici spesso sorprendenti e possibilità di crescita di prezzi impressionanti: è il caso di Jukhee Kwon.

Se valesse anche da noi lo “ius soli”, sarebbe quasi italiana. Ha sposato un romano incontrato durante il cammino di Santiago di Compostela. Vive fuori poco dalla Capitale, ai Castelli, in una specie di monastero dismesso. Quando vai a trovarla, si presenta indossando un maglione multicolor andino, ma di solito insegna yoga, in quelle che un tempo dovevano essere le cellette. Nelle foto delle sue recenti nozze, insieme ai genitori anche i suoceri italiani sono abbigliati nei tipici costumi coreani. Per paradosso lei, di fede, è però cristiana. Così si presenta Jukhee Kwon: artista, nata 33 anni fa a Daejeon in Corea del Sud, radicata e apolide nello stesso tempo, studi a Londra, studio a Grottaferrata.

Le sue opere sono quanto di più raffinato esteticamente e nello stesso tempo concettualmente si possa immaginare. Ritaglia le pagine di vecchi libri, la carta si assottiglia in striscioline che cadono come acqua dalla coperta, fuoriescono dai dorsi in pelle, sfilacciano le costole dei tomi tarmati, fontane di pensieri che infine si raggrumano a terra. Sulla spoglia libreria di casa, ha un volume aperto in caratteri cirillici di Anna Achmàtova da cui pende una chioma di versi. Potrebbe essere il “Requiem” in cui la poetessa russa, colpita negli affetti intimi dal regime comunista – il giovane figlio incarcerato senza motivo – piange ed eleva la sua voce in difesa di tutte le vittime dei totalitarismi. Non so se sia un caso, o una coincidenza, questa perfetta armonia tra l’atto dell’artista che usa le forbici per ritagliare le pagine, le parole che cascano come lacrime, il risultato finale, poetico quasi per sottrazione, al pari dei componimenti della Achmàtova.

Jukhee non sa rispondere, né in italiano né in inglese. Anzi mi guarda stupita. Dovrebbe dilungarsi in coreano. Lei usa la carta da sempre, è quasi un’ossessione, questo lavorio acuto, di srotolare gli “in folio” fino a prolungarli oltre se stessi. Mi mostra un sacchetto in plastica della spesa: tracima di minuscoli origami a forma di cigno. Dice che sono per un nuovo lavoro; centinaia di guizzanti foglietti pronti all’uso. Intanto, ha esposto un po’ dovunque nel mondo, a Parigi, a Dubai, a Berlino, a Milano. Il Victoria and Albert Museum di Londra ha acquistato un suo pezzo. Sorride dietro gli occhiali. L’arte è una predisposizione. Come in un haiku: “La foglia che ritorna al ramo? Una farfalla”.

Jukhee Kwon