Domenico Marranchino svela le città invisibili

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La rivoluzione visiva delle prospettive in fuga

DomenicoMarrachinoDiciamo che le “Citta invisibili” di Domenico Marranchino sono più visibili di quelle di Italo Calvino. Quest’ultimo nell’omonimo celebre romanzo, perfetto esempio di lusus semiotico-strutturale, immagina una sequela di città fantastiche, in tutto 55, che Marco Polo descrive all’imperatore dei Tartari Kublai Khan. Come fosse un moderno “Le Mille e una notte”, ogni storia ne contiene un’altra, ogni città ne prevede un’altra, e così via all’infinito tra rimandi e citazioni circolari che non portano da nessuna parte. Quelle di Marranchino, lucano di nascita e milanese di adozione, sembrano invece un luogo ben individuato, Milano, e ben visibile pur nella teoria di prospettive in fuga. In questo senso, la mostra in corso fino al 31 ottobre alla meritoria fondazione Maimeri avrebbe potuto ben titolarsi le “Città visibili”, invertendo la citazione calvinesca sempre comunque rimandando alle Lezioni Americane, in cui lo scrittore prevedeva che “la visibilità” (e non l’invisibilità) avrebbe dovuto essere una delle parole chiave del nuovo millennio.

In ogni caso, Marranchino negli ultimi anni ha cominciato ad affrontare il tema della città e dell’architettura che è centrale nella riflessione di una schiatta di artisti contemporanei: dai tempi del flaneur di memoria baudeleriana, il poeta e il pittore devono per esigenze d’ispirazione perdersi nei meandri delle moderne metropoli e, da quell’inferno, risalire con l’illuminazione. Sulla scia del più affermato, Alessandro Papetti, anche Marranchino compie una rivoluzione visiva, la velocità di memoria futurista, viene impressa alla tela non dalla macchina in moto, bensì il movimento è dato dalla luce, quasi che il quadro fosse stato dipinto a bordo di un drone in volo tra i palazzi, sopra le strade a noi consuetudinarie.

Le cose migliori sono quelle però in cui Marranchino si allontana da modelli suoi coetanei riconoscibili ed evita fughe prospettiche, e la pittura densa – pur restando nel solco della grande tradizione lombarda, da Morlotti passando per Ossola – assume tratti originali concentrandosi frontalmente sui nuovi progetti architettonici, simboli di una città che si rinnova e deve trovare presto i propri cantori. Oppure, quando rinunciando tout court al colore sintetizza il panorama a china.