Silvia Argiolas, carnevale oscuro e selvaggio

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Dove il disegno soccorre la parola

di Andrea Dusio

Sembrano favole nere, figure tratteggiate con segno infantile. Raccontano proiezioni, desideri e paure che appartengono a un mondo ancestrale e inconfessabile. Se li guardi distrattamente, i dipinti di Silvia Argiolas, artista cagliaritana che vive e opera a Milano, possono ricordano le maschere di Emil Nolde o qualche oscuro primitivista. Fanno pensare a un vecchio giallo di Durenmatt, “La Promessa”, in cui una bambina disegna un gigante che le dona dei porcospini, e il gigante è il pericoloso maniaco che l’ha avvicinata.

Ci sono lupi, spettri, esseri antropomorfi che sembrano i personaggi di un carnevale primitivo e oscuro, ragazze che piangono disperatamente, tutti immersi in uno scenario coloratissimo, selvaggio e sgargiante, in cui il paesaggio diventa il teatro dell’azione di personaggi che riconosci istintivamente essere buoni o cattivi. Il mondo della Argiolas è infatti senza mezze misure, brutale e indigesto, niente tenerezza, tutto raccontato come dentro a una seduta psicanalitica, in cui non si nasconde nulla.

“Il mio lavoro nasce da una trasformazione introspettiva di quello che capita nella mia esistenza” spiega lei. “Non è mediato da bozzetti o disegni preparatori perché preferisco intervenire direttamente sulla carta o sulla tela, assecondando le sensazioni che provo in quel momento. Molti dei personaggi che affollano le mie tele, anche contemporaneamente, assomigliano vagamente alla mia persona, rubandomi l’identità. Anche i miei paesaggi sono molto interiorizzati, con colori sempre molto forti e acidi”.

Silvia è scappata dalla Sardegna “per sopravvivere”. Ma dentro si porta, non sappiamo quanto consapevolmente, qualcosa di inestricabilmente sardo, a partire proprio dall’idea di raccontare il proprio mondo con la fiaba. È una pittura orale la sua, in cui ti viene da chiamare per nome gli animali, e a provare a mettere assieme un racconto, superandone le incoerenze, riducendo l’illeggibilità dei momenti a minor intento comunicativo, quando si abbandona al segno e al colore.

Parla del suo amore per il cinema, che “Ti aiuta a confrontarti con altri mondi, a provare empatia”. Ma quando guardi i suoi oli e i suoi smalti, il centro del racconto sembra essere lei, la possibilità di far incarnare la propria biografia al colore, di spiegarsi proprio come ci si spiega da bambini, dove il disegno soccorre la parola, perché è una lingua più potente, che dice anche le cose che ancora non sappiamo e quelle che avremmo preferito dimenticare.

17.07.2014