Enrico Robusti: cibo, eros e ironia

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Dipingere le cose per cui vale la pena vivere

di Clelia Patella

 

Difficile trovare un pittore italiano contemporaneo più OFF di Enrico Robusti. Per elezione, per scelte compiute. E per il fatto di essere – più di tanti altri, più di artisti che hanno meno della metà dei suoi anni – veramente unico nel suo genere. Nella sua pittura tante sono le citazioni e i rimandi, da Chagall a Klimt sotto lo sguardo costante di un Groszo di un Bosch; per tacere della sua iniziale ricerca pittorica compiuta con particolare riferimento alla scuola olandese seicentesca di Rubens e Van Dyck. Ma lui è decisamente e solo Enrico Robusti.

Nel 2004, dopo aver passato anni da pittore ritrattista con una laurea di Giurisprudenza in tasca, Robusti inizia un nuovo tipo di ricerca espressiva, che si compie e giunge a maturità nel 2011: il focus si sposta dal ritratto al simbolo, alla vertigine prospettica già presente nelle sue opere, in chiave espressionista e sempre più visionaria. Surrealtà e realismo sociale (e domestico) a braccetto.

Al centro della simbologia di Robusti c’è il cibo. O meglio, il divorare: dove non troviamo alimenti troviamo una bocca che divora un’altra bocca in un bacio estremamente carnale, abbuffate di erotismo, di sesso, di amore, di denaro. E questi simboli vengono posti al servizio dei temi trattati nelle sue opere, che si dedicano all’introspezione verso il sé come alla verifica con il sociale, al privato familiare come all’aspetto pubblico e anche politico, ma anche alle grandi domande di sempre che chiunque – ma in particolare l’artista – si pone.

L’aspetto visionario, reso dal pittore tramite le sue allegorie, i suoi personaggi, i suoi elementi e le sue prospettive è fondamentale per definire ed espandere maggiormente il suo messaggio. Che non vuol essere una risposta a nulla: l’artista non ha un compito. “L’artista non deve cercare risposte al senso della realtà: al contrario, deve rendere ambigua una cosa che sembra semplice, e viceversa”, Ci dice Robusti. “Deve affascinare chi guarda, non dare spiegazioni oggettive che peraltro non piacciono a nessuno. L’arte deve fermarsi al senso dello stupore e della meraviglia; come diceva Giovan Battista Marino “è del poeta il fin, la maraviglia e chi non sa stupir vada alla striglia”. D’altronde nessuno è in grado di spiegare niente. Probabilmente l’unica spiegazione della nostra vita è il dubbio, non la certezza”.

La citazione del Marino, con cui Robusti si identifica con un poeta piuttosto che con uno scrittore, ben si adatta all’approccio creativo con cui l’artista opera: si tratta infatti di un approccio letterario e non pittorico. Un quadro di Enrico Robusti non inizia sulla tela, ma da un titolo. Per il pittore ha molta importanza la Parola, e quali implicazioni e congiunzioni possa generare, quali metafore e allitterazioni possa evocare. Dipingere è un momento successivo: la ricerca pittorica non lo riguarda più.

A causa della crisi del nostro Paese, che comporta particolari difficoltà per un artista, Robusti ha dovuto scegliere, a malincuore, di vivere fisicamente in Italia – a Parma, la sua città, dove altrove? -, al centro della terra dei piaceri sensuali legati in particolar modo al cibo – ma artisticamente e virtualmente altrove. Ovvero a Londra.

Ed è a Londra, presso la galleria Ransom Art, che dal 22 maggio al 23 giugno si terrà la sua prossima personale “Vice – Food, Sex & Irony in Italy”. Ovvero, le cose per cui vale la pena vivere. 25 tele di media dimensione ed una grande: ma non solo. Il giorno prima, il 22 maggio, ci sarà il private show in cui interverrà lo chef Giorgio Locatelli, che selezionerà vini e cibo da offrire ai presenti a suggello del significato liturgico del cibo che è implicito nelle opere di Robusti. Un aspetto liturgico che cela ben altre valenze, un atto del mangiare che non è mai fine a sé stesso.

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