Basta inciuci di partito, Buttafuoco al Teatro di Roma. Subito!

E’ veramente curioso che le istituzioni comunali e ministeriali, i dirigenti, gli assessori ed i ministri che hanno causato il “maledetto imbroglio” del Teatro di Roma, nominando discussi “manager”, siano anche coloro i quali vogliono ipocritamente trasformare lo Spettacolo italiano, dare al Teatro Stabile della capitale una nuova e più moderna direzione artistica ed essere gli autori del rinnovamento della scena Nazionale! E dove è finita la Vigilanza della Direzione Generale Mibact per lo Spettacolo dal Vivo su tante lacrime versate, quando la stessa: “Dispone interventi finanziari a sostegno delle attività dello spettacolo e svolge verifiche amministrative e contabili, ispezioni e controlli sugli enti sottoposti a vigilanza e sui soggetti beneficiari di contributi da parte del Ministero!!!????”

Se con la “cultura non si mangia” di Tremontiana memoria di ieri, dobbiamo anche aggiungere con altrettanta e amara Renziana inappetenza di oggi che in troppi dello stesso ghiotto cibo si stanno abbondantemente e con voracità abbuffando oltre ogni misura, ascoltando le corpose cifre in rosso e scoprendo i miseri bilanci in bianco che non vengono pubblicati dai responsabili degli Enti di Prosa e Lirici, che denunciano disavanzi inconcepibili in un paese senza più consumi non per colpa dell’arte che non nutre, ma perché mancano il lavoro e le riforme! E poi apriamo il sipario sugli sprechi e gli sperperi di danaro pubblico non secondi al costume corruttivo dei partiti oramai diffuso. E allora il momento di applicare le norme di diritto costituzionale e le regole democratiche abolendo le stanze occulte del potere dove si nominano gli amici e si cancellano gli avversari, per illuminare la ribalta delle decisioni trasparenti, combattendo l’identificazione della politica culturale al servizio di tutti i cittadini con l’ideologia politica di chi governa il paese in quel momento.

Ed allora si abbia il coraggio, come noi lo abbiamo, di dire forte e chiaro il nome di un candidato pulito. La nomina di Pietrangelo Buttafuoco a direttore artistico del Teatro di Roma, dopo la felice esperienza artistica catanese e le sue dimissioni contro l’immoralità delle clientele, potrebbe essere l’occasione per sconfiggere eticamente questo sistema di clan che rinasce dalle sue ceneri, affidando il palcoscenico e l’azienda romana ad una personalità culturale europea, ad un drammaturgo e scrittore di valore, militante non di un singolo schieramento ma di una comunità locale e nazionale in un orizzonte teatrale non circoscritto soltanto agli stili ed alle tendenze drammaturgiche del palcoscenico ma soprattutto agli ideali ed alle esigenze delle future generazioni e della società contemporanea.

 

Salvatore Aricò. Dal Piccolo Teatro di Milano con Paolo Grassi e Giorgio Strehler, al Teatro Stabile di Genova di Ivo Chiesa e Luigi Squarzina, al Teatro Manzoni di Milano. Direttore delle produzioni di “Teatro 5” con Franco Zeffirelli, Vittorio Gassman, Giorgio Albertazzi. Organizzatore della Compagnia della Luna di Nicola Piovani, Vincenzo Cerami e Lello Arena, direzione di Sala del teatro Quirino ed ex Direttore del Teatro Valle di Roma (1996-2011).

 

Cambiare molto per non cambiare nulla nei ministeri come nel teatro… 

Ancora una volta l’ennesima e presunta riforma dello spettacolo si attua attraverso la via amministrativa anziché legislativa. E’ un dato di fatto inconfutabile: al confronto e dibattito parlamentare si privilegia l’antico metodo della concertazione con le categorie, spesso favorendo interessi di singoli o di settori forti a discapito di una visione complessiva di sistema.

Questo vale a maggior regione per il teatro che dall’avvento della Repubblica continua ad essere un settore “fuorilegge” disciplinato da decreti ministeriali, predisposti da direttori generali e firmati da ministri spesso privi delle minime cognizioni per dettare gli indirizzi, duttili per le esigenze estemporanee talvolta dell’Amministrazione e più spesso, come in passato, degli operatori, in fondo entrambe mai veramente interessati alla disciplina di una legge poi difficile da emendare nel tempo. Ma si tratta di svolta vera o solo annunciata? Le sbandierate novità in tema di teatro contenute nella bozza di decreto ministeriale in via di approvazione sono effettivamente tali? Proviamo a dare alcune risposte:

la triennalità dei finanziamenti è un criterio di intervento già introdotto sul finire degli anni ’90 e poi repentinamente abbandonato per l’incertezza finanziaria del Fus e per l’effettiva impossibilità dei soggetti di programmare per un lungo periodo

di teatri nazionali si parla da sempre: uno, nessuno, centomila…come direbbe Pirandello, una diatriba lunga decenni per accontentare o non scontentare clientele politiche, storie di direttori e di teatri, territori, sindaci, presidenti di regione. Ma qual è il disegno e soprattutto a chi giova?

il riconoscimento del Piccolo di Milano quale Teatro d’Europa, è avvenuto sul finire degli anni ’80 ad opera dell’allora ministro Tognoli; perché riutilizzare vecchie etichette quando ormai l’Union Europa è una realtà istituzionale, economica e geografica di cui ogni teatro Italiano fa parte a pieno titolo?;

anche le residenze non sono una novità, in quanto categoria di pensiero dapprima introdotta dallo Stato per poi essere accantonata e successivamente ripresa in alcune regioni;

la dichiarata facilità di accesso dei giovani artisti al sistema dei finanziamenti pubblico è un diritto ineccepibile che si scontra con la definizione delle necessarie risorse destinate allo scopo che, se non adeguatamente incrementate andranno tolte a quei settori che da sempre incidono sulle rendite di posizione e sulle pratiche di un mercato teatrale ingessato nelle vecchie logiche di potere e degli scambi;

di centri di produzione si parlava sul finire degli anni ’60 alla vigilia della loro trasformazione in teatri stabili privati poi divenuti di interesse pubblico-privato. Riesumare questa categoria serve forse a penalizzare strutture che hanno lavorato da sole sul territorio senza alcun apporto di enti locali atavicamente restii?

limitare al 30% l’incidenza della qualità sulla valutazione dei progetti è solo un dato economico che peraltro sottende un problema irrisolto da sempre: cos’è la qualità e come oggettivizzare un giudizio per non eccedere nell’arbitrio dei cd. esperti? Una domanda che ad oggi non trova ancora risposte.

E se tutto questo rientrasse ancora una volta nella logica di ridurre il numero dei soggetti che accedono al Fus e di concentrare gli interventi, di eliminare come accaduto in passato iniziative che non per demeriti artistici prendevano poche risorse (al disotto di livelli fisiologici per svolgere una qualsiasi forma di attività), con la conseguenza che spesso non sono stati i peggiori ad essere esclusi ma i più deboli, per i quali il sostegno pubblico è stata per assurdo una condanna e non un volano per la crescita artistica e imprenditoriale.

In altri termini continuiamo a pagare le conseguenze di una carente politica culturale da parte delle istituzioni, a inseguire la logica dell’emergenzialità rinunciando a definire, lungi da qualsivoglia ideologia, i veri obiettivi che il sostegno pubblico dovrebbe conseguire, ovvero favorire opportunità, promuovere l’evoluzione di un moderno sistema dello spettacolo autenticamente propositivo, capace di gestire al meglio le risorse pubbliche affidategli e di colloquiare con la collettività per favorire il rinnovamento della scena artistica e la platea dei suoi fruitori.

Come sempre cambiare molto perché nulla cambi… nel teatro come nella vita pubblica, come nei ministeri….

 

Antonio Di Lascio. Esperto di diritto e legislazione dello spettacolo, di economia ed organizzazione aziendale dello spettacolo, già dirigente dell’Agis ed ex coordinatore scientifico dellìOsservatorio dello spettacolo del MIbact, con esperienze in Cinecittà, Ente Teatrale Italiano, Centro Sperimentale di Cinematografia, Siae, Università La Sapienza di Roma.