Al Brancaccino di Roma poi in tournée il bel testo di Erba nella versione di Lupano/Gianmarini.
di Italo Valli
Il testo del drammaturgo torna a Roma, al teatro Brancaccino, con la versione dei registi-attori Cristian Giammarini e Giorgio Lupano.
Due podisti che si preparano per la celebre maratona di New York. Un cielo cosmico alle loro spalle. Non è una semplice sessione di allenamento. Quella corsa è il momento giusto per parlare di tutto: Dio, donne, sport (boxe, calcio, la grande Inter). Ed è anche l’occasione giusta per sostenersi, spronarsi, farsi domande a vicenda (tante). Una, quella che sembra essere più importante, è: perché corriamo? “Per portare a casa un risultato” risponde uno dei due. Quindi bisogna stringere i denti e insistere quando si soffre, abbattere e superare la soglia del dolore per arrivare fino in fondo.
È in scena fino al 15 dicembre, al Teatro Brancaccino di Roma, uno dei testi più famosi del drammaturgo Edoardo Erba. Maratona di New York rimane da sempre, fin dal primo allestimento datato 1993, una sfida non solo verbale, ma anche fisica, in cui gli attori corrono per l’intera durata dello spettacolo. L’allestimento di Cristian Giammarini e Giorgio Lupano (nella doppia veste di registi e interpreti) rilegge e reinventa lo spettacolo con una regia moderna che non ha paura né di cavalcare i momenti comici né di dare la giusta profondità a quegli sprazzi di dialogo che trasformano la loro in una corsa iperreale.
“Maratona di New York ha corso più di me, viaggiato più di me, fatto carriera più di me”, dice Erba. “E ho la sensazione che vivrà molto più di me. Una sensazione che si conferma a ogni versione che mi capita di vedere. Se poi vedo una versione come quella di Giammarini-Lupano, la sensazione diventa certezza”.
I due interpreti vivono in perfetta simbiosi sul palco (sia nella recitazione che nella performance atletica). Appena parte il cronometro, vivono la stessa esperienza dei loro personaggi: una corsa inarrestabile che va oltre l’atto sportivo e diventa metafora delle nostre esistenze. In un attimo arrivano al cuore del dramma con estrema semplicità e spontaneità, senza bisogno di sottolineare o marcare alcunché. Per loro la corsa è una metafora di vita, un’intera esistenza condensata in 59 minuti (la reale durata della messa in scena). Le proiezioni (sia quelle statiche dei cieli stellati che quelle rapidissime, sparate come flash, e accompagnate da scariche sonore) risultano funzionali alla storia; non cercano mai di prevalere sul testo e sanno turbare, sapientemente e al momento giusto, l’atmosfera quanto basta. Il risultato è raggiunto: trasmettere agli spettatori, per l’intera durata, il forte presagio che quei chilometri portino non solo alla fine di una strada, ma da chissà quale parte.