Integrazione = identità, parola di antropologa

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Cristina Orsatti vive a Trento, dove lavora tra arte e antropologia. Si occupa di antropologia del contemporaneo e di importanti progetti di rigenerazione urbana e pianificazione territoriale in Italia e Gran Bretagna dove ha vissuto a lungo. E’ interessata all’antropologia fuori dall’accademia e dalle torri d’avorio del sapere.  Per Cristina l’antropologia è “una pratica di conoscenza, esperta nell’analisi dei contesti e delle relazioni”, non un modello di conoscenza. L’arte è una pratica curiosa e libera da modelli e da imposizioni: in dialogo con l’antropologia è utile per maturare consapevolezza di ciò che ci circonda, fondamentale per discipline che adottano spesso modelli e riducono gli uomini a dati, algoritmi, grafici.  L’antropologia fornisce strumenti pratici per interrogare la cultura e sovvertire convenzioni prestabilite invecchiate. L’arte nell’antropologia configura una visione più realistica di ciò che ci circonda e del mondo.

Nell’ambito del World Anthropology day 2025. Antropologia Pubblica a Milano e Torino, sul tema “ Futuri Emergenti Negativi Alternativi. Futuro è già qui, ma non è distribuito equamente”, promosso dall’Università degli Studi Bicocca di Milano, l’antropologia si propone come un porto franco, dove culture e tradizioni possono integrarsi con la complessità del presente: come e perché?

Integrazione non vuol dire omologazione, vuol dire mantenere la propria “identità” e mettersi in relazione con l’altro diverso da sé e “corrispondere” (Ingold 2028) come si faceva una volta con le lettere. Il tema è quello di un futuro opprimente, che è già prestabilito, è già presente e ci toglie l’aria, lo spazio vitale. L’arte è una chiave per riscoprire ciò che ci piace della tradizione e non siamo disposti a lasciare, o omologare nella logica del grande calderone della globalizzazione. L’arte come la storia, sono importanti anche se pare che questa non esista più, appiattita da un presente che non lascia spazio al futuro di nascere. E’ la nostra storia di individui in quei luoghi (i luoghi delle foto dei documentari). E’ una storia che ci fa sentire a casa anche se siamo in viaggio.

La realtà è complessa, servono strumenti nuovi per esplorarla e cercare di conoscerla nella sua eterogeneità e frammentarietà e nei suoi aspetti contraddittori, ibridi. Per questo le diverse tradizioni se riconosciute possono essere valorizzate.

Le culture già sono integrate. Solo che non lo vediamo. Un antropologo vede subito come si comportano le persone, come un architetto nota l’architettura quando scopre un’altra città. Si tratta di “skilled vision”. La quotidianità è talmente parte delle nostre abitudini che la diamo per scontata. Invece le abitudini sono culturali, come il nostro modo di vedere, sentire, relazionarci. Non c’è nulla di scontato nelle abitudini. Eh si l’antropologia è un vero porto franco ed è – secondo me- il porto franco di tutti: dove si va, si viene, si scambiano, merci, idee, ci si reinventa ma poi si torna a casa. L’antropologia fa casa perché rende l’esotico familiare e il familiare esotico.

Nell’ambito del tuo corso Antropologia e Arte 2022/2024 all’Accademia di Belle Arti di Milano quali tematiche hai sviluppato con i tuoi studenti italiani e stranieri nel profilarsi di un futuro complesso e globale ?

Gli ho fatto fare gli antropologi! Volevo fare teoria e pratica insieme. Soprattutto li ho lasciati liberi di esplorare un tema di ricerca a loro caro e li ho aiutati a svilupparlo in modo concreto, seguendo lo schema classico dei progetti di ricerca con intervista e osservazioni. Un progetto in miniatura, dove però dovevano aderire al reale, a quello che vedevano, a quello che trovavano, sentivano: il “progetto distillato” 1 max 2 pagine. Hanno fatto un progetto artistico e poi fatto una riflessione. Io sono trentina, ho usato la metafora del distillato pensando al la grappa per dare l’idea della sintesi.

Internet è carico di informazioni e di tesine. Ma a me interessava il loro sguardo sul reale, la loro esperienza di giovani che vivono la quotidianità: usano internet, prendono i mezzi di trasporto per venire a Milano o a Sassari, parlano con quelli della loro generazione. Si interessano all’ambiente, alla pratiche artistiche in disuso, alla diseguaglianza, alle comunità utopiche, alle donne, agli archivi, al passato che scompare davanti ai loro occhi e viene sostituito da un presente schiacciato, uniforme, continuo e senza confini, alle comunità che non esistono. Nei lavori c’è la festa, la famiglia, il luogo, le identità. Abbiamo studenti cinesi, sardi, di varie regioni d’Italia che hanno lavorato insieme e hanno portato frammenti di Sardegna, di Cina, di Sicilia, di Appennino, di Milano alla mostra.

Ci racconti la mostra dei progetti dei tuoi studenti e quali obiettivi ti vi siete posti, oltre a denunciare catastrofi ambientali e altri scenari disumanizzanti?

Non ci siamo proposti proprio niente, se non quello di fare un buon progetto coerente e aderente alla loro sensibilità. Realtà e immaginazione, antropologia e arte amplificate.

Li ho lasciati liberi di esprimersi e aiutati ad esprimere quello che loro volevano fare.

Evidentemente questi temi, più di altri sono nelle loro corde. C’è un po’ di me in quei progetti ma c’è tanto del loro. Ed è così che immagino le trame generazionali, il titolo del lavoro di una mia laureanda, un parlarsi da posizioni diverse ma anche un lasciare libero l’altro di immaginare il proprio futuro e della sua generazione in modo autonomo.

Between art and anthropology
Making communities, reinventing futures

Making da Ingold, tra l’arte e l’antropologia riprende l’idea del tavolo, tra documentazione e immaginazione l’approccio teorico pratico, la reinvenzione del futuro, è un’idea: il futuro si può ripensare se il presente è opprimente.

Tradizione, Identità, reinvenzione, Memoria, Corpi Negati e Bruciati, Non Luoghi e Pseudonia, Distopia, Comunità Utopiche.

Quando l’Antropologia è utile all’Arte contemporanea e perchè?

Sempre! E l’arte all’antropologia. Perché l’antropologia non può trasformare il mondo senza l’arte e la creatività, senza l’immaginazione ed il contrario. Noi questo mondo lo vogliamo cambiare, trasformare, reinventare, senza che nessuno ci dica ciò che dobbiamo fare, e quale algoritmo dobbiamo usare. Tecnologia si e anche no. Non è la tecno scienza che può aiutarci ora.

Abbiamo bisogno di tanti artisti e tanti antropologi, e meno tecno-scienziati, meno economisti, meno ingegneri, meno burocrati, meno giuristi. Siamo stufi di questi tecno-modelli, previsioni future in 3d ecc che prevedono tutto e modellano la nostra esistenza ed esperienza. E poi la gente trova sempre altre strade per vivere, c’è sempre un po’ di rumore in ogni piano, modello. Ed è su questo rumore che l’antropologia lavora.

In sintesi qual è il messaggio di questa mostra trasversale?

Facciamo uscire fuori i tavoli dalle gallerie, apriamoci al dialogo, ammiriamo la bellezza, riflettiamo, ri organizziamoci, in modo organico libero mantenendo la nostra identità ma creando dei tavoli, che cambiano a seconda del contesto, che sono più stretti o più lunghi a seconda delle persone che vi partecipano e che si possono allungare o accorciare a seconda delle esigenza, come è successo per la mostra, dove il tavolo e i tavoli ospitano i ragazzi sardi e ospiteranno dei progetti distillati per parlare con il pubblico. Il fulcro della mostra è la comunicazione attorno ai tavoli e la bellezza delle opere intorno. Gli artisti ci aiutano a vedere la bellezza, gli antropologi a guardare alla realtà e a interrogarla criticamente. Gli artisti infine ci aiutano a trovare soluzioni creative inaspettate divertenti. Ce la possiamo fare!.

Come immagini il futuro?

Aperto, libero, ideale, trasversale, complesso bello, fiorito, curioso, interessato interrogativo, onesto, etico, umile e disincantato, un futuro che lascia spazio alla meraviglia, alla scoperta, all’invenzione e alla creazione, alle donne soprattutto in Italia che è molto indietro rispetto ad altri paesi.

Ma soprattutto un futuro non definito già, non programmato, non incapsulato, non regimentato, un futuro libero da condizionamenti e anche vuoto. Questo potremmo impararlo dai cinesi. Il vuoto, il silenzio, il mistero, la spiritualità. E’ necessario riprendere collettivamente la voglia di sognare, immaginare. Antropologia documentazione, arte immaginazione.

In un momento in cui il “reale” si mischia con l’artificiale, il finto con il vero, le opinioni con i fatti. E vitale è riprendersi in mano l’utopia, la visione di ciò che vogliamo, desideriamo. Parlo anche per i giovani soprattutto, schiacciati da questo presente senza opportunità, che dall’Italia se ne devono andare se vogliono sperare di trovare un lavoro decente che si risveglino da questo stato di torpore, rassegnazione, di apatia e mancanza di curiosità e prospettiva. Le prospettive ci sono basta vederle e le opportunità aprirle. Vorrei dire loro non fatevi portare via il futuro! Non è ovunque la stessa cosa. Dove si è, conta per opportunità, discriminazione, accettazione, accoglienza. Lo dicono le foto della mostra e lo dicono i nostri lavori di campo. Bisogna aprire gli orizzonti. Anzi spalancarli. E questa mostra vuole fare questo. E’ bellezza, e delicatezza è equilibrio è affetto e in parte smarrimento, contenuta disperazione, che questi lavori secondo me ci comunicano. Il senso dell’urgenza di un cambiamento che si ha da fare con ciò che abbiamo in mano. La possibilità di incontrarsi nel fare insieme.

  • Al finissage del 1 marzo ci sarà una discussione con Arianna Catania su Gibellina città d’arte 2026 e Bussana Vecchia: Galleria Previtali arte contemporanea via Elia Lombardini 14 20143 Milano.