Pietro Pirelli, splendido settantenne, musicista e artista visionario, compositore di accordi cosmici tra luce, acqua e spazio, vive a Varese immerso nella natura, in una grande casa con vetrate affacciate sul lago, circondato da libri, sculture, alberi e strumenti musicali. L’abbiamo incontrato nel suo eremo isolato dal centro, dove suona con l’ambiente e produce onde di armonie ancestrali.

Cosa fai nel tuo laboratorio sonoro?
Vivo , ascolto, osservo la natura e creo nel mio grande spazio, dove ci sono libri di musica e partiture, cataloghi d’arte, dischi e nastri e diversi strumenti musicali, specialmente a percussione, le pietre che suonano e le mie opere/invenzioni per suonare la luce. Dispongo di attrezzi di ogni tipo. Sono un liutaio del suono e della luce, perché da molti anni ho sconfinato nelle arti visive, intraprendendo una ricerca artistica trasversale tra luce e mondo dei suoni.
Sei figlio di Marinella Pirelli, avanguardista off-limit, madre e artista sperimentale: è stato difficile trovare la tua identità e originalità di ricerca ?
Madre e padre. Entrambi mi hanno trasmesso il loro amore per la creatività artistica, i valori della cultura e dell’impegno sociale. L’uno e l’altra, in modo diverso e complementare. Non avevano problemi economici e questo ha reso loro più semplice coltivare i propri interessi e allo stesso tempo fare i genitori. Però, per una donna, se eri un artista benestante, potevi essere presa per una borghese che dipinge per hobby. Mio padre Giovanni, storico, scrittore e militante politico, fu un importante intellettuale del Novecento. Mia madre Marinella, era una donna a cui importava soprattutto immergersi nella sua ricerca creativa, dimenticandosi del resto. Come me. Il celebre fotografo Mario Dondero, vedendomi suonare i sassi di Sciola, mi disse “certo che tu, con cotanti genitori, sei stato bravo a trovare la tua strada…….”
Vivi isolato in una casa-atelier affacciata sul lago di Varese: quanto incide nella tua ricerca la costante relazione con la natura?
Silenzio, verde, cielo, acqua. Spazio dello sguardo. Come si può vivere senza il divenire delle stagioni? Mentre scrivo, vedo all’orizzonte quel tramonto autunnale spesso dipinto da Renato Guttuso, che a settembre lasciava i colori e le luci siciliane e veniva a stare qui.
Come ti è venuta l’idea di unire la luce al suono e quando?
Luce e suono sono impalpabili, immateriali, vibranti. L’arte della luce vuole la penombra, l’arte del suono chiede il silenzio. Luce e suono possono essere statici, sospesi, oppure in divenire, regolati da un ritmo musicale, variare timbro e intensità, riverberandosi tra le forme di uno spazio architettonico. Quando? Da una quindicina di anni, subito dopo la morte di mia mamma.
Il tuo lavoro è connesso all’ingegneria e all’innovazione tecnologica: come armonizzi, o meglio accordi scienza e arte?
Non le ho mai viste in contrapposizione. Sì, le mie opere/invenzioni possono essere complesse, ma parlare di ingegneria e scienza mi sembra eccessivo. Io non sono certo in grado di fare calcoli e disegni complessi ma raramente ne ho bisogno e quando devo risolvere certi problemi mi piace coinvolgere altre competenze. Le mie opere sono quasi sempre oggetti dinamici, funzionanti. Celano complessità e sono il frutto di una sperimentazione ostinata, ma si mostrano semplici e immediate. Credo che sia questo a renderle magiche. Spesso ho realizzato un’opera, un’installazione, dopo aver provato stupore davanti a un fenomeno. Credo sia Importante riuscire a trasmettere questo stupore. Se c’è emozione per l’intuizione e la meraviglia c’è anche poesia. Le stesse cose possono riferirsi allo scienziato. Si è parlato spesso di matematica e poesia. Arte a scienza sono due modi diversi di avvicinarsi alla natura. È bene che i due mondi si ascoltino e si osservino. Ritengo che la tecnologia possa allontanarci dalla natura e pure dalla poesia, dipende da noi. È vero che, nel dominio digitale, il mondo virtuale e la rete hanno pervaso la nostra vita relazionale sostituendosi al contatto diretto con le persone e con la materia: è un mondo sempre più artificiale. Per questo amo vivere in un luogo dove osservo lo scorrere delle stagioni assieme ai miei cani. Mi aiuta a purificarmi, passando comunque un certo tempo al computer. Come potrei altrimenti?
Quando hai introdotto il laser nella tua ricerca e perché è innovativa Arpa di luce?
E’ avvenuto quando incontrai Gianpietro Grossi, ingegnere e musicista. Abbiamo appena deciso che Arpa di Luce si scriverà Arpadiluce. Una sorta di marchio di fabbrica. La inseriremo come contributo alla pagina Wikipedia “arpa laser”, affianco a quella che suonava Jean Michelle Jarre. Come vent’anni fa conobbi Pinuccio Sciola e scoprii che potevo esplorare l’universo sonoro della pietra, così quindici anni fa incontrai Grossi e compresi che la sua Undicicorde le mie dita avrebbero potuto fare musica con il laser. Liberare un suono dalla dura materia della pietra ma anche toccando nel vuoto corde di luce laser. Suonare in spagnolo è tocar. Se ad uno scienziato non è concesso dire che la luce è materia, la scienziata Fabiola Gianotti l’ha concesso all’artista Pirelli, nel momento che, toccandola, ne esce suono. Ovviamente si tratta di un artificio virtuale, ma nella gestualità di alzare le braccia verso il cielo e toccare la luce. Rispetto ad altre arpe laser Arpadiluce risponde in modo molto preciso all’azione delle dita. Grazie alla bassissima latenza, trasforma quella che era un po’ un “effettone” da discoteca in un raffinato strumento musicale, sviluppato con il software dei musicisti di AGON. Quindi è diventata un’opera che si è avvalsa di diversi contributi. Al di là del mio lavoro decennale dedicato allo sviluppo musicale, da subito ne ho compreso la forza come opera di light art in grado di modificare la percezione di un luogo. È una bellissima scultura luminosa che si protende per oltre venti metri, corde di luce che sembrano tendersi tra gli estremi di un ambiente, facendolo risuonare come un grande strumento musicale. Lanciando un lungo pendolo che la lambisce oscillando fra le corde si attiva una melodia ipnotica circolare – Quindi con Arpadiluce mi sono avvicinato alla tecnologia laser, che mi sembrava un po’ facile e abusata. Ho utilizzato il laser anche in altre opere.

Sei compositore, tendi all’armonia cosmica e da giovane hai condiviso le sperimentazioni avanguardistiche del Living Theatre, la compagnia teatrale sperimentale che ha rivoluzionato il secondo Novecento: quanto ha inciso nella tua ricerca l’equazione Arte uguale Vita, cioè l’idea di cercare l’arte nella vita quotidiana e nelle persone comuni?
Da bambino, negli anni sessanta, arrivò a casa mia tutta la tribù del Living. C’era ancora Julian Beck. Ci fu un lungo confronto/scontro col compositore Gigi Nono sul tema della militanza politica, per loro assolutamente non violenta. Molti anni dopo ho lavorato con loro nel corso di un decennio, tra il 90 e il 2000. Componevo le musiche e talvolta salivo in scena. La traccia del loro passaggio nella mia vita credo sia soprattutto il desiderio di raggiungere tutte le persone e abbattere la barriera della fruizione passiva. Anche se in fondo la fruizione non è mai passiva!
Utilizzi materiali trovati, usati, donati o ereditati assemblandoli tra loro per costruire nuovi strumenti musicali: che valore dai a questa pratica post dadaista?
Non sapevo che questo approccio fosse post dadaista. Molti oggetti, tra le mie mani, hanno acquisito una nuova vita. Il riutilizzo può avere una valenza ecologista, ma direi che la loro metamorfosi ha anche qualcosa di simbolico e pure ironico. Sono oggetti come i cerchioni delle auto, le lame per tagliare il cemento, i bidoni del petrolio che, guarda caso, in inglese si chiamano “drums”.
Sei tra i maggiori protagonisti della Light Art italiana che unisce musica, luce e acqua, noto per gli Idrofoni: cosa sono e come funzionano?
Non sapevo di essere così importante, però è vero che molte persone considerano la mia ricerca artistica assai originale, se non unica. Idrofono va scritto con l’iniziale maiuscola, diverso dal sostantivo idrofono, che è un microfono per captare il suono degli abissi marini. Con questa mia opera invece capto stimoli sonori e muovo l’acqua. Così facendo, rendo visibile il suono. Se poi l’acqua scolpisce e riverbera un fascio di luce, ottengo stupende proiezioni dinamiche. Non si tratta quindi di traduzioni virtuali suono/visione, fatte con il computer, ma di fenomeno, di processo “analogico”. Questo mi piace fare.

Le tue esibizioni sono happening che cercano la condivisione e partecipazione con il pubblico…
Si parlava di Idrofono. Spontaneamente le persone si dispongono attorno in cerchio, come nel rito di condividere il focolare. Talvolta il pubblico è invitato a cantare e vedere la propria voce dentro l’acqua.. Qualcuno lo fa. Nelle strade di Mumbay questa esperienza coinvolse i passanti per ore. Chiamerei ciò partecipazione attiva. Ma a volte trovo più soddisfazione quando le mie installazioni inducono al silenzio e alla meditazione. Ho visto persone fermarsi molto a lungo. Quando intercetto il passaggio casuale delle persone o lo stupore dei bambini mi sento appagato.
Nell’ultima Biennale di Light Art a Mantova 2024 hai esposto un ciclo di fotografie astratte, spazialiste e cosmiche, con dettagli grafici siderali, cosa significa questo passaggio dalle sculture o installazioni sonore alla fotografia?
Si chiamano Idrofanie. Il curatore di Mantova Erlindo considera l’Idrofono come “Opera Madre” delle Idrofanie. Giusto. Questo strumento musicale senza suono ha partorito le opere visive, mentre cantavo e suonavo. Sono LightBox, immagini trasparenti attraversate dalla luce, così come l’acqua dell’Idrofono. Non mi considero un fotografo, ma se mi serve fotografare, imparo. Quello che conta è il processo. Un istante di suono viene “pietrificato”, o meglio, trattandosi di acqua, viene congelato dallo scatto fotografico. È musica assestata. Partorite nell’acqua, le Idrofanie, mostrano tutta la bellezza e la complessità delle interazioni fra onde sonore e moto ondoso. Queste Epifanie sonore sembrano muoversi. Sono diventato così anche autore di opere visive.
Cosa pensi delle opere ambientali di Olafour Eliasson, tra i maggiori protagonisti della Light Art dal background multiculturale, noto per progetti crossmediali d’ impatto scenografico?
Non l’ho conosciuto di persona, peccato. Avremmo potuto fare grandi cose assieme! Attraversare le sue opere è un’esperienza. Mi piace immaginare di immergermi in un suo ambiente e lui sia lì a osservarmi come uno dei tanti che vengono coinvolti, o turbati dal suo lavoro.
Per te il suono è anche colore?
Certo. Ma tecnicamente c’è una risposa molto semplice: musica e visione condividono molti termini ma spesso il significato non è applicabile a entrambe. Per esempio la tonalità nella musica è la del colore pittorico . Sono stati fatti tanti studi ed esperimenti sulla sinestesia o sulle corrispondenze tra udibile e visibile , la musica si esprime nel tempo , è effimera persiste nella memoria, e le note per ciascuno evocano colori diversi
Che valore ha per te il gioco, l’accadimento nella tua ricerca artistica?
Se non sai cogliere quello che capita al di là di quello che stavi cercando ti perdi qualcosa! Giocare “alle costruzioni “con materiali diversi è fonte di ispirazione. In altre parole: le idee mi vengono strada facendo.
In quale opere ti sei relazionato con l’ambiente naturale o urbano?
Ho costruito strumenti flessibili da modellare a seconda dei contesti. In questo caso Sono i contesti ad essere opere, seppur effimere.
Le tue opere smuovono riflessioni sulle tematiche ambientali-ecosofiste o si inseriscono in una dimensione totalmente spirituale?
C’è sempre da imparare: non conoscevo il termine ecosofismo e devo dire che mi sta a pennello. Ma, per usare una frase di Elio Vittorini, non suono il piffero per l’ecologia: troppo facile. L’amore e la preoccupazione per l’ambiente e il rifiuto dell’antropocentrismo vanno espresse in modo indiretto, lasciando che siano le opere stesse a parlare. Sono preoccupato certo per il destino del pianeta e provo sgomento per questa recrudescenza di guerra e barbarie. Ciò mi spinge ancor di più a cercare di esprimere armonia e spiritualità. Parlo di Artificiale-Naturale, By man’s hand: In questa opera tutto è in equilibrio precario. Anche la mano dell’uomo, fatta di ghiaccio, tende a corrompersi. Però le gocce che cadono su petali di pietra creano suoni dolcissimi e riverberi luminosi che pervadono lo spazio. Chi vuole può vedere quest’opera come un auspicio affinché la mano dell’uomo ritrovi l’armonia con la Natura. Quest’opera è stata per un lungo periodo in un tempio coreano.
Quali artisti del passato e contemporanei continuano ad ispirarti?
Tutti e nessuno, eccetto il grande poeta Charlie Chaplin e Leonardo da Vinci.
Che importanza ha nella tua ricerca il viaggio soprattutto in Oriente, cosa vai cercando?
Quando torni da un viaggio intenso per un po’ di tempo sei piuttosto confuso, soprattutto se eri in Africa, il meno antropocentrico dei luoghi. Lavorare in paesi lontani “non occidentali” lascia un segno. L’ho fatto in Corea, Giappone, India e in Israele
Ti piacerebbe esporre un progetto condiviso con James Turrell? Cosa faresti con lui?
Il grande Turrell non mi sembra il tipo che si metterebbe a lavorare con me. Potremmo però trovarci qui, a Villa Panza, per sdraiarci assieme sul bianco pavimento della sua opera e guardare la finestra di cielo in silenzio
Cosa pensi dell’Intelligenza Artificiale?
Così com’era inevitabile che si scoprisse l’energia atomica, ora arriva l’intelligenza artificiale, una bomba o una grande risorsa? Dipende da noi, anche dagli artisti.
Quale progetto stai sviluppando?
Quest’estate sarò in un contesto prestigioso con un grande progetto. Ci sto lavorando. Nel frattempo mi sono deciso a riordinare le mie idee il mio archivio. Ci vuole. In questi giorni, con il bravissimo Nino Alfieri stiamo sperimentando una performance di pittura di luce e di suono.