Creatore di miti: l’ultima serata del X Festival delle Città Identitarie si chiude con un lungo e intenso omaggio a Sergio Leone (1929-1989), il rivoluzionario regista che re-inventò il western e che volle essere sepolto a Pomezia, precisamente nel piccolo cimitero di Pratica di Mare.
A raccontare questo straordinario protagonista della cultura italiana e mondiale del Novecento, ospiti d’eccezione: innanzitutto Luca Verdone, che conobbe direttamente Leone e ha scritto dei saggi su di lui; poi, in collegamento con un’intervista esclusiva, suo fratello Carlo Verdone, i cui primi due film – i celeberrimi “Un sacco bello” e “Bianco, rosso e Verdone” – nacquero proprio grazie a Sergio Leone. E poi Osho, Federico Palmaroli, con la sua satira irriverente. Sul palco, anfitrioni della serata, la vicedirettrice del TG1, ammiratissima in un abito rosso fuoco, Incoronata Boccia e il direttore di CulturaIdentità, Edoardo Sylos Labini.
Una soirée resa ancora più intensa dalla voce di Stella Gasparri, con le sue letture e la rivelazione sul palco che molti dei meravigliosi manifesti dei film di Leone sono opera del pennello di suo nonno. Poi la musica, con la voce di Alma Manera che insieme all’ensemble del maestro Sergio Colicchio ha regalato al pubblico alcune delle più belle musiche che Ennio Morricone ha scritto per le pellicole di Sergio Leone.
Protagonista della kermesse, dunque, Luca Verdone. Regista, documentarista, studioso del cinema, Verdone riceve sul palco il Premio Effetto Arte, conferito per il suo impegno artistico e culturale dalla Fondazione Effetto Arte, storico partner di CulturaIdentità. Luca Verdone è l’uomo giusto per raccontare Sergio Leone, perché ha avuto la fortuna di conoscerlo, lavorare con lui e scrivere libri su di lui, quando il padre de “Il buono, il brutto e il cattivo” era ancora in vita.
“Leone era romano e amava moltissimo la romanità. Amava i classici, i miti greci. Per questo ha deciso di portarli sul grande schermo, riscrivendoli come western. E per questo, probabilmente, iniziò ad amare Pratica di Mare” racconta Luca Verdone. L’amore fra Sergio Leone e il borgo di Pratica di Mare, dove venne a girare alcune sequenze di “C’era una volta il West” e “C’era una volta in America”, affonda dunque probabilmente nel carico di storia e mito che gronda da questo pezzo di Pianura Pontina, quello dove sbarcò Enea trentadue secoli fa. “Amava così tanto questi luoghi che lui, romano, chiese di essere sepolto a Pratica di Mare”. E il capitolo della sua tomba nel borgo pontino, è una storia nella storia, che raccontano a più voci Luca Verdone, suo fratello Carlo e Sylos Labini. A partire dalla fine, con il lungo tentativo di impedire la traslazione della salma dal Verano, il cimitero monumentale di Roma, durante la giunta Rutelli al Campidoglio. Non poteva non essere citata, a quel punto, la vicenda di Alida Valli – che con Luca Verdone aveva lavorato – che dopo la sua morte, nel 2006, dovette attendere sei mesi per trovare dignitosa sepoltura nel camposanto Verano.
Dunque, con il più classico dei flashback, la storia di Sergio Leone inizia con l’ultimo capitolo: quello della tomba. A raccontarcelo è Carlo Verdone, con una lunga e divertentissima intervista registrata con il direttore Sylos Labini. “Un giorno, era il 1985, Sergio mi chiama: “annamo a magnà il pesce a Pratica di Mare”. Io lo raggiungo, ma prima di andare al ristorante, Sergio fa una deviazione”. Tappa: il cimitero di Pratica di Mare. Carlo è stupito: per chi andiamo? “Devo scejie la tomba”. “Per chi?”. “Per me”. Un argomento di discussione scomodissimo: Carlo si schermisce (lui non lo dice, ma noi possiamo vederlo mentre fa le corna alle parole del suo mentore) ma Sergio insiste: “Meglio vista mare o vista cipressi?”. Del resto, sono registi: la luce è tutto. Alla fine la scelta cade su un loculo in alto, in vista della spiaggia. “Ma non è che poi c’è troppo sole?” chiede Leone. “Ma che te frega, tanto sarai morto!” gli risponde Verdone. Anche perché il problema era un altro: quella tomba desiderata da Leone è già occupata… “Vabbè, ma nun te preoccupa’… conosco qualcuno, vedrai…” taglia corto il regista. Alla fine, con un po’ di battaglie, il desiderio dell’uomo che ha regalato al mondo la Trilogia del Dollaro è stato esaudito: con un piccolo mausoleo, per fortuna lasciando l’occupante del loculo al suo eterno riposo.
Un Sergio Leone umano, umanissimo. Incoronata Boccia chiede a Luca Verdone di raccontare al pubblico la personalità di questo grande regista: “Era un uomo generosissimo – dice Verdone – l’avevo conosciuto nel 1975 durante il festival di Taormina. Apprezzò tantissimo che io conoscessi tutti i suoi film di allora e con lui nacque un’amicizia bellissima”. Dopo qualche anno, lavorando anche insieme, Luca Verdone scrisse un primo libro su Sergio Leone e ne iniziò un secondo, con la casa editrice francese Hachette, che però divenne una tela di Penelope, perché Leone era impegnato sul set di “C’era una volta in America”. “E soprattutto Sergio era maniacale. Era un perfezionista. Il libro dunque ebbe una gestazione lunghissima”. La sua attenzione al dettaglio era una delle grandi doti di questo genio della cinepresa. “Nel 1967 lo incrociai per la prima volta. Stavano girando “C’era una volta il West” e io potei assistere alle riprese. Avevo tredici o quattordici anni. Mi intrufolai nel teatro di posa e vidi la Cardinale con Jason Robards che recitavano. Mi colpì un dettaglio: Leone aveva fatto mettere ai fonici le registrazioni della colonna sonora di Morricone in playback, perché gli attori la sentissero mentre recitavano. Dovevano entrare nell’atmosfera che lui aveva immaginato in immersione totale“, rievoca Verdone.
L’amicizia con Sergio di Luca è dunque improntata a una sconfinata ammirazione. La serata procede con la storia per immagini e racconti della vita di Leone. Figlio d’arte, respira cinema dal padre e dalla madre, entrambi attori. Le loro vite si incrociano con quelle di Eleonora Duse e Gabriele d’Annunzio. “E’ insomma cresciuto a latte e cinema”, osserva Incoronata Boccia. Ma nonostante le carriere dei genitori, per Leone la strada è dietro la cinepresa, non davanti. Fa la comparsa in “Ladri di biciclette”, poi però inizia a fare l’aiuto-regista, insieme a grandi nomi: Mario Soldati, Aldo Fabrizi, Mervyn LeRoy, Fred Zinnemann… Nel 1959 è nella troupe di William Wyler per il colossal dei colossal: Ben Hur. Di cui firma una delle scene più celebri, quella della corsa delle bighe: “La sua passione per il dettaglio è già evidente – spiega Verdone sulla sequenza dove Charlton Heston sconfigge Stephen Boyd – il corpo di Messala insanguinato, rivoltato nella polvere è una novità di crudo realismo per quei tempi”. Leone insomma ha delle qualità innate, ma le ha sviluppate perché ha fatto la gavetta: “il cinema è un mestiere – dice Verdone – e lui l’ha imparato con pazienza accanto ad altri grandi“. Nel 1961 viene il momento di debuttare da solo. E lo fa scegliendo un film di genere, un peplum: “Il colosso di Rodi”. “Leone sapeva di dover fare un esordio convincente e puntò su un cavallo che sapeva avrebbe vinto: il film di genere. Un film con un linguaggio preciso”. Scelta ponderata e azzeccata.
E’ invece un gioco d’azzardo quello che tre anni dopo lo porterà al western. “Tutti dicevano che il genere del western fosse oramai morto” rievoca Luca Verdone. Ma Leone insiste: il suo “Per un pugno di dollari” ha le carte giuste. I produttori gli danno un “sì” a condizione: deve trovare un co-produttore straniero e Leone lo trova in Germania. “Conquistò i tedeschi raccontando loro la trama. Fu talmente convincente che riuscì a trascinarli: di trattava di una novità assoluta, che rivoluzionava il vecchio genere inserendo elementi nuovi, per esempio il teatro e il cinema giapponese“.
E qui nasce l’epos rivoluzionario del regista romano: “Sergio Leone affermava che Omero è stato il più grande scrittore di western“, dice Edoardo Sylos Labini. “Nelle sue opere c’è favola e mito – conferma Verdone – I poemi omerici sono alla base delle sue sceneggiature. Lui non vuole raccontare la frontiera, gli scontri fra indiani e cowboy. A lui piacevano le storie che avessero una spina dorsale epica“. Ma non solo. “C’è anche molto Goldoni, in lui. Del resto, Clint Eastwood in “Per un pugno di dollari” è come Arlecchino: il servitore di due padroni”.
E qui arriva “Il buono, il brutto, il cattivo”. Sul cui titolo non può non intervenire Federico Palmaroli, in arte “Osho”, con le sue graffianti satire: “Chi sono i buoni, i brutti, i cattivi?” gli chiede Sylos Labini. “Senza dubbio, per i buoni sceglierei Fratoianni e Conte – dice Palmaroli mostrando la sua prima vignetta.

Sul brutto, “ovviamente senza dare giudizi estetici”, parte un evocativo Fassino.

Ma ovviamente è il cattivo che tutti aspettano con ansia. “E chi meglio di Renzi?”, mentre invita Letta a sporgersi da un parapetto molto in alto, perché da là “se vede mejo”… “Stai sereno!”.

“C’è bisogno di smitizzare, di disimpegnarsi” dice Palmaroli. Sergio Leone, d’altronde, fu accusato d’essere un regista “non impegnato”, un “crimine gravissimo” nell’epoca in cui bisognava essere engagé a ogni costo. Eppure, “disimpegnato” non voleva affatto dire non avere spessore. E Leone lo dimostrò con quella memorabile sequenza iniziale di “Giù la testa”: citazione di Mao – “la rivoluzione non è un pranzo di gala…” e poi Rod Steiger che fa pipì su un formicaio. Ed ecco servita a colpi di montaggio analogico una lezione d’umiltà ai colleghi “impegnati”… Volate bassi, perché – come ha raccontato Carlo Verdone nella sua intervista – Sergio Leone aveva le mani pesanti… dietro la cinepresa come nella vita reale. E gli schiaffoni di un maestro del cinema di quel livello sono sempre educativi. E meritati.