La regista e attrice Martina Badiluzzi_credits Courtesy of Press Office
Più che aspettare, la sua “Penelope” immagina di incontrare l’Ulisse che non vede da tempo e, con tutta la fantasia di cui è capace, si lascia travolgere dai sentimenti imparando a convivere con l’attesa logorata dalla solitudine. Il 29 e il 30 aprile, ad interpretarla sul palcoscenico capitolino del Teatro Biblioteca Quarticciolo, dopo il grande successo del debutto al “Romaeuropa Festival”, sarà Federica Carruba Toscano diretta da Martina Badiluzzi. La regista, autrice e attrice friulana, di stanza nella Capitale, è reduce dalla tournée internazionale con lo spettacolo “Avremo ancora tempo di ballare insieme” di Antonio Tagliarini Daria Deflorian. E, mentre si prepara alla “Primavera dei Teatri” per il primo giugno, nonché alla futura stagione teatrale in via di definizione, parla dell’ideale trilogia sul femminile iniziata con “The making of Anastasia” e del progetto di drammaturgia in cui, con la passione che la contraddistingue, insieme alla compagnia riunita concentrerà studio e ricerca su opere e biografie di Charlotte, Emily, Anne e Branwell Brontë. Dando vita e voce ai personaggi dei loro romanzi che, di certo, incontreranno gli applausi del pubblico in sala. 
 
 
Il debutto di “Penelope” è avvenuto al Romaeuropa Festival, che esperienza è stata?
 
«Vedere la sala piena è una cosa che mi emoziona sempre. È un esperimento che amo fare quello di sedermi tra il pubblico di un mio spettacolo, una cosa scaramantica. Acquisto un biglietto per la prima e mi intrufolo non vista. Di recente ho assistito alla generale di “Adam’s Passion” di Bob Wilson e, per caso, mi sono trovata seduta proprio dietro di lui. Durante lo spettacolo l’ho visto più volte guardarsi attorno, soffermarsi sui volti delle persone per capirne la reazione. Sapere che un regista maturo e affermato come lui ama curiosare la reazione del pubblico mi ha rincuorata, forse l’emozione di sentire gli spettatori non passa mai».
 
Come descriverebbe la protagonista del monologo? 
 
«Penelope è una donna con una capacità di immaginazione sconfinata. La fantasia, così mi piace pensare, è stata il campo di allenamento delle donne. Impedite nella realtà e nell’azione, hanno coltivato così il futuro, lo fanno da millenni. Penelope è questa, immagina di incontrare l’uomo che non vede da anni e si allena ad affrontare il dolore, la rabbia e la solitudine. Si addestra a convivere con i suoi sentimenti».
 
Perché la scelta interpretativa è ricaduta sull’attrice Federica Carruba Toscano?
 
«Quando scelgo di lavorare con una persona mi interessa il suo mondo, prima di tutto. Federica è una lettrice e studiosa appassionata. Una donna profondamente in contatto con i suoi sentimenti e un’attrice con uno strumento vocale e un corpo capace di profondità e leggerezza. La “Penelope” che si vede in scena è il punto di congiunzione dei nostri desideri».
 
Dopo “The making of Anastasia” e “Penelope”, quale sarà il terzo capitolo della sua ideale trilogia sul femminile? 
 
«La nostra ricerca si concentrerà sulle opere e sulle biografie di Charlotte, Emily, Anne e Branwell Brontë. Quest’estate presenteremo al Festival di Pergine uno studio sui primi capitoli di “Jane Eyre” e da lì continueremo fino al debutto nell’autunno del 2024. Sarà bello tornare a lavorare con tutta la compagnia riunita. Attingeremo a piene mani dai romanzi delle Brontë. maneggiare personaggi come Heathcliff, Chaterine, Jane Eyre e Rochester? Non vedo l’ora!».
 
 
C’è ancora bisogno di raccontare il mondo delle donne a teatro? 
 
«Non credo sia esattamente questo quello che facciamo, né che sia quello che serve. Donne e uomini convivono nello stesso mondo, forse da qui dovremmo partire. Continuare a sradicare il pensiero che ci siano culture secondarie, minoritarie. I miei spettacoli sono femminili quanto lo spettacolo di un mio collega maschio può essere maschile». 
 
E l’universo maschile? 
 
«A dire il vero, quello maschile è piuttosto rappresentato ma il punto è la qualità delle narrazioni. Non è mai abbastanza ciò che si può dire su quanto gli uomini stessi subiscano, a volte inconsapevoli, il sistema patriarcale fondato dai loro avi. È un lavoro di coscienza, di condivisione e non di separazione. Tutti dovremmo essere transfemministi, ci stiamo arrivando, prima o poi. La storia non torna indietro, ce la faremo». 
 
Pensa che, in seguito all’emergenza pandemica, il lavoro nella sale teatrali sia effettivamente ripartito? 
 
«Posso parlare per me, la sala di “Penelope” al debutto al Romaeuropa Festival scoppiava di “salute”, una marea di persone che avevano voglia di essere dov’erano. Ovunque andiamo il pubblico risponde. Le persone vogliono vedere la nuova drammaturgia, vogliono sorprendersi e mescolarsi. I teatri devono programmare con coraggio, prendersi la responsabilità di far viaggiare il lavoro dei giovani registi. Produrre meno, distribuire di più».
 
Quali sono, a suo avviso e se esistono, gli ostacoli attuali per una regista? E per un’attrice?
 
«Gli artisti sono soffocati dall’iper-produzione che il mercato, gli intrecci ministeriali e i finanziamenti richiedono. I giovani artisti sono costretti a iper-produrre per lavorare perché il sistema teatrale italiano ha eliminato “la distribuzione” dall’equazione produttiva. Questo è l’ostacolo, la staticità. Bisogna attivare sistemi di scambio tra le città, far muovere le compagnie e gli spettacoli che devono viaggiare, arrivando alle platee».