Marco Aceti, attore e pompiere: «In scena quel fuoco sacro che ho dentro…»

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Passione, impegno, coraggio e una sana dose di leggerezza. Nella vita, sul set o in scena a teatro. Marco Aceti, che parallelamente al mestiere attoriale lavora come vigile del fuoco da 18 anni, parla degli esordi professionali e di quanto sia necessario conservare le proprie radici identitarie per affrontare sfide avvincenti e diverse davanti alla macchina da presa e sul palcoscenico dove è lui, oggi, a dettare “Le regole del gioco” che danno il titolo al suo ultimo spettacolo.

Quando ha capito di avere il fuoco sacro dell’arte?

«Da giovanissimo, ho iniziato con i fotoromanzi a 16-17 anni, già pensavo di intraprendere la carriera di attore e così ho capito che era la mia vocazione. Da lì, poi, ho frequentato una scuola di recitazione».

Vive a Ciampino, la sua città identitaria?

«In realtà sono nato a Marino, ma abito a Ciampino. Però mi reputo un romano doc, trascorro quasi tutti i giorni a Roma. Ho provato varie volte l’emozione di visitare un posto e la percezione di averci vissuto in un’altra vita. Forse, quella era la destinazione in cui sarei stato in pace con me stesso. È accaduto sull’isola di Favignana, in Puglia e nel Salento, in particolare a Punta della Suina e, ovviamente, succede nella Capitale che, tuttavia, mi dà un misto di sensazioni mescolate allo stress lavorativo, al traffico e alle preoccupazioni quotidiane. Mentre le altre, dove generalmente si va in vacanza, mi regalano un senso di tranquillità. Ho origini siciliane, mia madre e mia nonna sono di Marsala».

Cosa conserva dell’identità territoriale? 

«La verità e la veracità dell’animo, la simpatia e la spontaneità tipicamente romane. Caratteristiche delle quali vado fiero. Inoltre, la capacità di avere sempre la battuta pronta e di cavarmela nei momenti complicati, trovando un escamotage nonché una via di fuga nella risata e nella goliardia. Nel Lazio ci sono luoghi meravigliosi, ho una moto con cui faccio lunghi viaggi, in solitudine o con la mia compagna. Amo tantissimo la cucina e i vini laziali».

Quanto conta preservare la propria cultura nel mestiere attoriale?

«È essenziale, significa avere delle radici. Ma è fondamentale scoprirne anche altre perché possono essere utili per interpretare una parte distante da sé stessi. Un attore, in questo caso, intraprende una sfida che è quella di esplorare mondi lontani trovando la chiave di lettura giusta per affrontarne una inedita, magari entrando in empatia con la gente locale. Il segreto sta nell’essere aperti a qualsiasi novità culturale, divenendo poliedrici senza fermarsi a ciò che viene cucito addosso su misura».

 Vigile del fuoco di professione, recitando porta con sé il coraggio e la stessa passione?

«Sono operativo sul campo e ho 18 anni di servizio. Crescendo, e con l’avanzare dell’età, posso affermare che li ho portati sul palco e me ne rendevo conto. Il vero problema è stato dosare l’energia che, talvolta, potrebbe risultare eccessiva rischiando di uscire fuori pista. Quindi “less is more”, togliere al proprio impeto per dare spazio al ruolo che si è chiamati a vestire».

In Italia, soprattutto al Sud nel periodo estivo, la piaga degli incendi è all’ordine del giorno. Secondo lei, le istituzioni si impegnano a sufficienza per prevenirli?

«La prevenzione in ambienti chiusi, quali le attività commerciali, è abbastanza efficiente e la percentuale si è abbassata parecchio. Al contrario, per gli spazi aperti, innanzitutto bisognerebbe pulire, eliminando le sterpaglie e tagliando l’erba che cresce ed è infiammabile come un cerino. Servirebbe una maggiore sorveglianza poiché, spesso, gli incendi sono dolosi, esiste l’autocombustione ma ci sono pure i piromani. In Sicilia, lo scorso anno, la Riserva dello Zingaro, in provincia di Trapani, era totalmente deturpata. Dunque le istituzioni potrebbero fare molto di più».

Ha debuttato in “Notte prima degli esami”di Fausto Brizzi, cosa ha imparato da quell’esperienza?

«Il mio primo film importante, preceduto da “Taxi Lovers” accanto ad un giovane Edoardo Leo che cominciava ad affermarsi nell’universo del cinema. Vinsi una posa nel corso di recitazione che frequentavo e Luigi Di Fiore, il mio insegnante di allora nonché regista della pellicola, volle premiare il più meritevole. Successivamente è arrivato “Notte prima degli esami”, in cui ho imparato a prendere questa professione con leggerezza e spavalderia di fronte alla cinepresa: Cesare, il mio personaggio, doveva essere un guascone privo di sentimenti e dedito al divertimento. Andai al provino, dopo svariati no ai quali non ero abituato perché, in seguito a “Taxi Lovers”, pensavo che tutto fosse in discesa. Mi presentai in maniera scanzonata e ciò che si vede sullo schermo non era scritto sul copione, gli stralci erano differenti. Ci misi in mezzo la celebre serie dei cento motivi per cui Claudia (Cristiana Capotondi, ndr) mi lasciava, farina del mio sacco. Fausto mi disse che ero un pazzo e mi rassegnai all’idea di un lavoro davvero complesso, immaginando l’ennesimo rifiuto. Ma finalmente mi prese. Nell’impegno, la spensieratezza permette di godere di ogni attimo oltre le responsabilità. Probabilmente è l’insegnamento più bello».

Nel 2019 è stato protagonista dell’horror-thriller psicologico “Lettera H”. Come descriverebbe il suo personaggio?

«“Lettera H”, prodotto da Tonino Abballe di SeDici Cinema, è il mio gioiello, la mia creatura. Io e Dario Germani lo abbiamo ideato da zero, forti della sceneggiatura di Andrea Cavaletto, autore di Dylan Dog, avendo completamente carta bianca. La costruzione del lungometraggio è avvenuta mattone su mattone. Sebastian è un tormentato, mangiato dagli eventi e destinato ad essere vittima dell’esistenza, di un logorio che ha dentro e proviene da un’infanzia difficile. Scappa, prova a ribellarsi senza riuscirci, un messaggio espresso con vigore. La cornice è uno degli omicidi del Mostro di Firenze, per Seba un trip mentale innescato dalla sua macchina, una Fiat 127 di seconda mano, ed è dominato da tale possessione paranoica. La accoglie, la riceve convinto che sia la strada da percorrere per stare meglio mentre, invece, lo condurrà alla sua fine e a quella di Patty (Giulia Todaro, ndr), l’altra protagonista. Dario, che nasce come direttore della fotografia, ha una visione registica geniale, ancora prima di girare sapeva cosa fare e ha trovato in me il tassello mancante chiudendo il cerchio che aveva già in testa. Siamo riusciti ad ultimare un’opera interamente italiana ed indipendente».

Un genere filmico che, a parte i big come Dario Argento o i fratelli D’Innocenzo, nel panorama nostrano è diventato raro.

«Sì, perché la commedia è più semplice da scrivere e girare.  Ed è più facile che gli spettatori l’apprezzino. Le pellicole di nicchia non sono per tutti, realizzarle è sinonimo di audacia artistica. Qualunque cosa fatta da professionisti con cuore e determinazione, lasciando il beneficio del dubbio, merita di essere guardata. “Lettera H” ha la sua collocazione nella cinematografia e ne vado fiero, sono contento del risultato. Solitamente ricorro all’esempio del cestino di vimini, l’intreccio meticoloso è il frutto della sapienza di un artigiano. È stato girato nel bosco di Gattaceca, a Monterotondo, tra le insidie e il freddo del mese di ottobre. Uno degli assi vincenti, in assoluto, il profondo silenzio. Si respirava un clima di tensione e paura, non ho preteso comfort di alcun tipo. Solo un camper per il trucco e gli effetti speciali curati da Sergio Stivaletti, che ci ha dato fiducia. Abbiamo ricevuto numerosi riconoscimenti partecipando a festival nazionali ed internazionali, dall’Oregon ad Amsterdam passando per il Sanese d’oro al Terra di Siena».

Fiction, teatro, cinema: cosa le riserva il futuro? 

«Ho da poco terminato due spettacoli teatrali: una commedia esilarante,  “Quella piccola pazza cosa chiamata amore”, in tour da ormai circa 6 anni per la regia di Lillo, e  il mio ,“Le regole del gioco”, diretto da Roberto Belli. Trattiamo un tema insolito e sottovalutato, la violenza psicologica subita da un uomo in una coppia sino alla psicopatia, interrogandoci fino a che punto può spingersi un rapporto malato. Una drammaturgia accurata e specifica che verte sulla storia di una persona innamorata, succube della sua donna, che lo renderà un ossessivo compulsivo dalle attenzioni maniacali verso gli oggetti con cui si vendicherà del male che lei gli ha causato. Nelle difficoltà ha un tic corporale e c’è una sorta di inganno nei confronti del pubblico sulla sua malattia, esce dalla realtà ed entra nella psicosi al limite del gioco e dell’equivoco. Un’avventura bellissima seppur faticosa, dal 4 al 7 gennaio prossimi saremo in scena al teatro capitolino di Tor Bella Monaca. L’intenzione futura, insieme a Dario Germani, è quella di creare un adattamento per il grande schermo».