Un eterno fanciullo che “Sapeva il vero nome di tutte le stelle”. Il Dante che tratteggia con sguardo partecipe Pupi Avati, riesce nell’audace impresa di riconciliarci con l’uomo che è dietro al capolavoro di poesia, d’immaginazione, di riflessione sull’umanità. In realtà, l’ennesima occasione per il suo cinema di esplorare la realtà dei sentimenti umani raccontando, questa volta, i momenti più salienti della vita del Sommo Poeta. Dante è l’italiano più celebre e più tradotto al mondo. Tuttavia di questo grande personaggio abbiamo un’idea vaga e scolastica, una figura che la storiografia ha reso troppo distante dalla gente. Nell’immaginario collettivo è circoscritta a un’iconografia ingenua: il profilo arcigno, il naso adunco, il carattere sdegnoso.
Ottantadue anni e il desiderio profondo di continuare ad illudersi nascosto in un angolo dell’anima, Pupi Avati ha affrontato la sua sfida più ambiziosa realizzando una pellicola lieve, intima e profondamente didattica. Uscito nelle sale il 29 settembre, prodotto da Antonio Avati per Duea Film con Rai Cinema e con Minerva Pictures Group, distribuito da 01 Distribution.
Dante è il film che ha tentato di realizzare per ben 18 anni, da sempre certo della necessità di trasporre in un’opera cinematografica la vita e il capolavoro immaginifico del Sommo Poeta. Un progetto coraggioso, forse provocatorio ma “indispensabile” così l’ha definito in un’intervista che ci ha rilasciato, un anno fa, durante le riprese.
Il maestro di pellicole indimenticabili come La casa dalle finestre che ridono (1976), Una gita scolastica (1983), Regalo di natale (1984), Il papà di Giovanna (2008) e il più recente Lei mi parla ancora (2021), appassionato dell’opera dantesca, consegna a un altro maestro della cultura italiana, Giovanni Boccaccio (interpretato da un intenso Sergio Castellitto) il compito di raccontarci la sua grandezza.
Ravenna, 1321: esiliato e misconosciuto, Dante Alighieri muore in povertà. Nel convento delle clarisse di Santo Stefano degli Ulivi, l’albero di mele selvatiche chiamato «l’albero del Paradiso» smette inspiegabilmente di dare frutti. Trent’anni dopo Boccaccio, da sempre accorato estimatore della sua opera, riceve l’incarico di consegnare a sua figlia, divenuta suor Beatrice, un risarcimento in denaro per l’esilio ingiustamente subito dal padre. Da qui ha inizio il suo viaggio tra pericoli e ostacoli, alla scoperta di chi ha conosciuto il poeta e chi ancora vieta la sua opera considerandola eretica. Con mano dichiaratamente documentarista, affine al Pupi Avati di film storici come I cavalieri che fecero l’impresa (2001), la ricostruzione dell’epoca è severa e fedele. Un cast corale, a cui affida veri e propri cammei, ricrea un Medioevo brumoso, non mistificato, militarizzato e gerarchico. E così, come è nello stile del regista bolognese, convivono mostri sacri del teatro: Erica Blanc, Leopoldo Mastelloni, Alessandro Haber, Enrico LoVerso, Gianni Cavina, Mariano Rigillo, Milena Vukotic, assieme a giovani e talentuosi esordienti. Anche questa volta, Avati traspone in pellicola un suo romanzo “L’Alta Fantasia. Il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante” (2021). Un cinema di “testimonianza” che lascia spazio all’emotività e ineluttabilmente al lirismo. Un racconto che attraversa la vita del mito eterno Dante. Le tenerezze di bambino e il suo fatale incontro con Beatrice, l’amicizia con Guido Cavalcanti (nei suoi panni Romani Reggiani), la politica, i tradimenti, il dolore della cacciata da Firenze e l’estasi della scrittura. Ma è nell’incrocio di sguardi tra il giovane Dante e Beatrice (interpretati dai promettenti Alessandro Sperduti e Carlotta Gamba) che si rivela la storia della poesia di Dante.
“Ne li occhi porta la mia donna Amore” celebre sonetto che declina l’emozione vissuta dal giovane poeta e che, con parole commosse, traduce Boccaccio: “In quello sguardo c’era l’emozione del mondo”. Sebbene la forza delle immagini cinematografiche non riesca a contenere l’immensa poesia di Dante, il tentativo sincero e appassionato del regista non può che essere riconosciuto.
Ed è nel dialogo finale tra Boccaccio e Suor Beatrice che si rivela la vivida commozione dell’autore: “Lo riesco solo a immaginare ragazzo”. Il regista e il Sommo Poeta si incontrano idealmente in una complice e struggente promessa di eternità… anziani che hanno occhi di “fanciullo”