Uno sguardo al Castello della Felicità, intervista ad Alessia Denaro

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Un dirottamento di carriera per fare della sua passione il suo mestiere. Alessia Denaro, di Avola ma romana di adozione, per anni ha lavorato come avvocato in uno studio internazionale occupandosi di finanza. Fin quando ha deciso di smettere e di dedicarsi alla letteratura. Il risultato è l’uscita del suo primo romanzo per ragazzi, Il Castello della felicità Salani 2021. Un’autrice esordiente che sta già riscuotendo grande successo. La incontriamo in occasione del Taobuk – Taormina Book Festival.

Il “Castello della Felicità” è il tuo primo romanzo. Dopo una carriera da avvocato finanziario, come è nato il tuo percorso nel mondo della scrittura e, in particolare, l’idea di questo libro?

Non mi piaceva più quello che facevo, nonostante gli studi e venti anni di esperienza. Mi sono guardata intorno e soprattutto dentro e ho provato ad esplorare un’antica passione, da ragazzina scrivevo molto. Poi, grazie ai tanto vituperati corsi di scrittura creativa (e in questo devo ringraziare soprattutto Carola Susani, Nadia Terranova e Tiziano Scarpa) si è sbloccato qualcosa e si è aperta una diga. Ho cominciato a scrivere e non ho più smesso.
L’idea di questo libro nasce dall’osservazione di uno dei miei figli: da piccolo era un brontolone . Mi ha fatto immaginare il personaggio di Tristano e poi ho costruito la storia tutto intorno.

Al centro del romanzo la storia di Tristano De Felicis, un bambino di dieci anni che ama le zucchine bollite ma non riesce mai a guardare le cose dal lato positivo. Suo padre, il barone De Felicis III, è invece l’esatto opposto, essendo il proprietario del Castello della felicità, uno sperduto maniero dove si pratica anche un trattamento per ritrovare il buonumore che induce Tristano alla fuga. Come si delinea nel romanzo il rapporto fra genitori e figli?

È un rapporto difficile, padre e figlio parlano linguaggi diversi e non si capiscono. Spesso noi genitori siamo armati di buone intenzioni ma procediamo come carri armati senza tenere conto che i figli sono altro da noi, hanno diverse sensibilità. Volevo raccontare un storia in cui si può accettare che un figlio si nasconda dentro un armadio per sentirsi bene e in sintonia con il suo sé profondo. Per un bambino, perlomeno per me bambina, sapere  che c’è qualcuno disposto a venire nell’armadio con te è rassicurante, così come  sapere che c’è qualcuno che ti aspetta quando ti viene voglia di uscire dall’armadio.

Tristano, tuttavia, è un bambino coraggioso che trova la forza di ribellarsi da aspettative e stereotipi per trovare la sua personale risposta ad una delle domande che l’essere mano si pone da sempre: che cos’é la felicità? Senz’altro un interrogativo complesso ma che tu hai saputo porre ai piccoli lettori con sensibilità e ironia. Come mai hai deciso di affrontare questo tema?

Il fatto di ribellarsi ad una visione che gli altri hanno di te e che inevitabilmente proiettano anche sulla tua coscienza era qualcosa che mi toccava molto in quel momento. È stato difficile il passaggio da avvocato a “qualcos’altro”…non è solo questione di lavoro ma proprio di identità. E ovviamente ha a che vedere anche con la ricerca della felicità autentica, quello che ci rende veramente felici non può essere uguale per tutti; probabilmente la condivisione può essere un buon modo per provare ad avvicinarsi, così come le risate. Di qualsiasi argomento credo si possa sempre trovare un lato divertente, qualcosa su cui sorridere.

Un romanzo per ragazzi che, con grande delicatezza, affronta temi che afferiscono, dunque, anche al mondo degli adulti. A quest’ultimi, quale messaggio trasmette “Il Castello della felicità”?

I romanzi raccontano storie e i messaggi ognuno deve trarli  secondo la propria sensibilità e le proprie esperienze. Però sicuramente si accende un faro su una questione molto dibattuta: prima di brigare, organizzare, gestire, aspettarsi risultati di tutti i tipi nei confronti degli figli, sarebbe sensato provare a conoscerli davvero.

“A Tutto Volume” a Ragusa, “Una marina di libri” a Palermo, e il recente “Taobuk – Taormina Book Festival”. Cosa significa per un’esordiente prendere parte ad alcuni fra i festival più importanti del panorama letterario nazionale?

Per me  prendere parte a questi festival è un grande onore ma anche una bella palestra, si impara da tutto e da tutti. C’è anche questo di bello nel cambiare  completamente settore: si ripassa dal via, bisogna ricominciare di nuovo ed è molto entusiasmante. E poi, ovviamente, quando si legge il proprio nome nei programmi si pensa: “Ma allora è vero!”