Nostalgia della verità: come riprendersela grazie all’arte

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Periodicamente la ragione deve aiutare la ragione a non smarrirsi e niente come l’arte può svolgere questo compito. Ecco il fine che si propone la mostra di pittura di Illegio (UD), “La bellezza della ragione”. Il curatore artistico, don Alessio Geretti, accompagna il visitatore in un’esplorazione di rara profondità e ampiezza della facoltà tipicamente umana: l’uso del pensiero, la nostalgia della verità. Appena una nostalgia, se l’uomo è onesto. Perché la sproporzione tra i limiti del suo conoscere e la vastità del cosmo, l’incontenibilità del mistero, è sconvolgente. È lì che la ragione si perde. O perché si aggrappa a un razionalismo schematico e sentenzioso, o perché cade nella disperazione. “Nulla è. Se anche fosse, non sarebbe conoscibile. Se anche fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile”, diceva il primo nichilista della storia della filosofia occidentale a noi nota, il sofista Gorgia, nell’Atene periclea del V secolo.

Camminiamo sull’orlo di un abisso, ma la ragione salva la ragione dal rischio di cadere. Anzitutto riconoscendo cosa ne è dell’uomo e del mondo quando il pensiero si fa rimpiazzare da voglie da soddisfare nell’immediato. È la prima sala della mostra, che pulsa del sangue sparso: sul pavimento elegantissimo dove a Roma si svolgeva un baccanale, sulle piastrelle grezze della casa in cui il marito ubriaco, l’occhio stralunato dal vizio, uccide moglie e figlio.

Le opere esposte sono anche solo un catalogo di sguardi. Ci sono gli occhi della Nina, pazza per amore, dipinti da Giacomo Fiamminghi, dove la perdita dell’amato è lo sgomento di un vuoto totale, e le iridi nere frugano come cani, cercando quello sbuffo di colore perduto che fino a poco tempo prima si chiamava vita.

C’è il grottesco idillio bellico immaginato da Giovanni Costantini. Generalissimi e strateghi pianificano un attacco nell’alone di luce di una casa, mentre ovunque, fuori, è il buio e la morte si fa passare nelle orbite un ghigno di piacere, appesa alla falce.

Ma poi i filosofi. Nudi di povertà, cenciosi. Folgorati dal desiderio della verità. Il Leucippo di Luca Giordano. L’eroico Diogene di Giovanni Battista Langetti, che chiede ad Alessandro Magno di non fare ombra a quel bel sole che gli asciuga le lacrime della disperazione di non riuscire a trovare un uomo, uno solo, un vero pensatore onesto e coraggioso e buono.

E gli occhi innamorati degli scienziati al tavolo degli esperimenti. Il Torricelli di Napoleone Boni. O il Newton di Pelagio Pelagi, che copia da giochi di bolle di sapone il gioco del suo prisma.

E poi i visi raggianti dei bambini, scopritori di mille modi leggeri e veri di dare un senso al tempo.

I martiri della ricerca. Eretici, rivoluzionari, addirittura una per sempre anonima lettrice degli anni Trenta del Novecento, quando la moda chiedeva altro alle ragazze.

E infine i santi. Agostino. L’infuocato Girolamo, sangue e nervi consegnati all’ardore delle Scritture. E, più su ancora, il “divino Maestro” ritratto da Bernardino Luini: Gesù tra i dottori.

La potenza della ragione svela gli inganni dei politicanti (maschere, insinua malizioso Angelo Dall’Oca Bianca), le insolenze della storia, il patetismo grottesco del potere. E tutto questo per cercare l’uomo – Diogene era lì a confermarlo. La ragione vorrebbe ritrovare o suscitare l’uomo e poi contemplarlo con amore. “Quanto è straordinario l’uomo, quando è davvero uomo”, faceva dire a un suo personaggio Menandro, guarito dalla febbre di Gorgia.

Ma quando l’uomo è davvero uomo?

Lo sapeva Agostino, ritratto in riva al mare a parlare con il bimbo. L’uomo ritrova se stesso appena non è più solo un uomo, solo concentrato su di sé. “Ne simus homines”, scriveva il santo vescovo di Ippona, trascinato dal Vangelo di Giovanni ai piedi della croce. Lì “la sapienza dei sapienti e l’intelligenza degli intelligenti” cedono a un Logos senza proporzione, senza rispetto della simmetria, oltre le geometrie e i calcoli della ragione che non sa adorare.