“Gog”, come Papini anticipò la lenta deriva della società globale

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Copertina della prima edizione del romanzo, Vallecchi Editore, 1931, Pubblico dominio, commons.wikimedia.org

Gog è il capolavoro visionario e incompreso di Giovanni Papini. Che attraverso la maschera cinica e spietata, annoiata e nichilista, di questo apolide magnate hawaiano riesce ad immergere il lettore nei luoghi oscuri della modernità, mostrandone l’insonnia della ragione ed i suoi mostri. Perché Mr. Goggins è sicuramente il più contemporaneo dei personaggi di Papini. Un miliardario ai limiti dell’onnipotenza, capace di attirare con la sua fama di moderno ed onnipotente Re Mida, i desideri, le pulsioni, le distopie proibite che agitarono il ventesimo secolo e si risvegliarono come un incubo macchinino nella postmodernità. Protagonista sradicato e disincantato dei due testi più cinici e corrosivi dell’autore dell’Uomo Finito, che raccontano il dramma dell’americanismo, dell’avanzata della società dei consumi, del genocidio culturale, della trasposizione tra mezzi e fini che ha permesso alla merce e alla tecnica di applicare il motto di Tyler Durden per cui, le cose che possiedi alla fine ti possiedono. Ma se nel primo testo omonimo, degli anni trenta, l’ironia, la parodia, del mondo neocapitalista poteva essere guardata ancora con gelido distacco, nel secondo capitolo, al gusto dissacrante si sostituisce l’incubo macchinino, il delirio visionario di una società in cui Papini è l’ultimo barbaro in un mondo di selvaggi. Profezia che in “Il libro nero”(LA SCUOLA DI PITAGORA, p280), diventa la scatola nera della società consumista, la cronaca anticipata del mondo globale. Come in un romanzo di Verne o Dick, con un pessimismo huxleyiano cupo e disincantato, il nostro presente viene vivisezionato, ricostruito quando ancora non è era che un distopico miraggio. Perché attraverso questo secondo diario oscuro, Papini, anticipa la lenta deriva della società globale, attraverso un expo delle aberrazioni del post umano, dove al posto dei padiglioni abbiamo gli incontri apocrifi con i protagonisti del passato. Dalla crisi dell’arte incapace di distinguersi dalla pubblicità e dal suo distacco sentimentale con le masse, raccontate da Picasso, alle lucide disperazione di Huxley sulla morte dell’individuo, sul superamento di ogni rapporto con la natura essenziale, biologica, organica dell’ultimo uomo. Attraverso capitoli ed incontri il cui tema sono la deriva massificata della letteratura, la riduzione dell’uomo non più a cittadino o persona, ma a consumatore, o ingranaggio che dir si voglia, dell’arrivo di una morale paralizzante e benpensante che in nome della tolleranza e della correttezza si permette di riscrivere i finali, “troppo antiquati” dei classici. In cui il superamento di ogni tipo di identità e radicamento è il prezzo che si paga volentieri per il successo e lo sviluppo. Prefigurando tramite gli incontri con Lawrence e Varonof, il nuovo ruolo messianico della tecnica e della scienza, capace di rimpiazzare le religioni e le ideologie, di giustificare un mondo in continua evoluzione e sopraffazione. In cui la fede si decompone nelle credenze, lo spirito nello spiritismo, gli stati nelle corporate, dove la morale e il grande altro hanno trasformato gli sconfitti in vinti, gli antenati in colpevoli, i posteri in nevrotici. Un viaggio disincantato e nichilista che sembra un trailer del 21° secolo, delle sue fobie, dei suoi totem e tabù, delle sue rovine girato nel 1951. Rovine spirituali in cui si mostra,nell’apocrifo di Blake, che l’uomo della fine della storia, non smetterà di incantarsi di fronte al sublime per mancanze di meraviglie, ma per mancanza di meraviglia.