Sguardo sul futuro: il fotografo Carlo Valsecchi racconta “Posterius”

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ph. "Posterius" di Carlo Valsecchi

Dal capolavoro del cinema muto di Fritz Lang, Metropolis, alla dimensione intima quanto visionaria con lo spazio e in particolare con l’opera industriale come grande “studio d’artista”. Carlo Valsecchi ci racconta la sua arte fotografica partendo da “Posterius”, il suo ultimo progetto realizzato durante la costruzione del nuovo stabilimento bolognese di Philip Morris International, oggi raccolto in un volume edito da Silvana Editoriale con la postfazione di William A. Ewing.

Partiamo dal titolo: Posterius. Un titolo che rimanda immediatamente al futuro. Come nasce questo progetto e cos’è per lei Posterius?

Il progetto nasce dall’invito di Mauro Sirani allora AD di Philip Morris Manufacturing & Technology Bologna a visitare la fabbrica nella fase di costruzione del nuovo stabilimento di produzione nei pressi di Bologna. Visitai sia la parte finita che il cantiere al suo inizio e mi restarono in mente i numeri che compongono la fotografia della copertina del libro che indicano un’unità di misura del sistema di controllo del processo produttivo. Decisi in quel momento che quell’immagine che avevo di fronte era per me il punto di partenza per costruire il mio lavoro, un’analogia visiva e concettuale che mi portava al lavoro di On Kawara, artista che ho sempre amato che lavorava sulla relazione tra Tempo, Essere e Spazio. Avendo sempre lavorato sulla relazione tra Luce, Tempo, Spazio tutto partiva da questa relazione e tutto doveva finire attraverso questa relazione, nella piena circolarità del progetto. Il titolo Posterius fissa la circolarità in un tempo non definito ma avanti a noi, un futuro prossimo, in un luogo non definito.

Il risultato, come scrive il critico e curatore visivo William A. Ewing nella postfazione del suo libro, è un racconto di spazi eterei, astratti, che confinano con il surreale e per questo sono intrisi di mistero. Tutto questo indubbiamente fa anche parte della sua cifra stilistica, ma quanto e in che modo secondo lei un luogo influisce sullo sguardo di un’artista fotografico?

Come William ha scritto nel suo testo, citando un mio precedente scritto: “Il mistero insito nei luoghi in cui ho lavorato… è quella per me l’unica questione. Un’enigma che so di non essere riuscito a decifrare e che continuo a esplorare”. Da sempre penso all’enigma che sta alla base del concetto di Spazio. Un enigma non decifrabile e proprio per questa sua natura originaria contiene in sé un sistema di propulsione il quale possiede un’energia infinita. Energia che mi porta a continuare a cercare delle risposte.

Lei è noto per il suo sguardo fotografico sull’architettura industriale.  Cosa la affascina di più di questo mondo? Come ci si approccia? Ricorda la prima volta che ne è rimasto incantato?

Penso che la mia generazione abbia nei propri occhi l’immagine dell’industriale (nel senso di racchiudere la forma e funzione), di questo mondo così vicino e al contempo così lontano in quanto non accessibile, non fruibile, posto nei pressi dei centri o lungo le strade di accesso alle città. Ci siamo cresciuti dentro e fuori nel medesimo tempo. Una delle innumerevoli dicotomie che formano la modernità in cui siamo cresciuti e viviamo. Tralasciando le immagini dell’età infantile impresse nella retina, ricordo perfettamente la prima volta che vidi il film di Fritz Lang “Metropolis”. Forse questo è il primo momento in cui rimasi affascinato da questo mondo. Credo anche che l’essere industriale abbia a che fare con il mio rapporto con la monumentalità e la sua relativa esperienza. Un rapporto di ricerca tra me e l’altro, in realtà, attraverso lo studio del rapporto di scala, che diviene fonte di meraviglia perché ogni volta cambia, muta, pur mantenendo i suoi codici originari. Un altro elemento molto importante rispetto all’industria è il suo essere come un gigantesco studio d’artista dove trovo tutti gli elementi per poter costruire le mie opere. Uno studio così grande che per ovvi motivi non potrò mai possedere.

Lei lavora molto sul concetto di spazio, in Posterius sembra di essere in un non-luogo. Come riesce a tradurre uno spazio fisico in uno spazio altro?

C’è un rapporto intimo tra me e lo Spazio generato attraverso l’ascolto del canto dello Spazio e della sua armonia. Un ascolto che per mezzo delle analogie concettuali e formali mi permette di costruire il mio lavoro. Ho sempre amato il pensiero della Città Analoga di Aldo Rossi e il pensiero analogico. Quando vedo, atto fondante e precedente a qualsiasi gesto, in una modalità “molto simile ad un automatismo” si innesca in me il processo analogico che porta a cercare di scomporre e isolare ciò che ho davanti nel tentativo di comprenderlo. Questa disponibilità del pensiero analogo permette a me di analizzare e successivamente dare inizio alla possibilità (al tentativo) di far divenire soggetto l’oggetto che ho di fronte, in modo che l’osservatore/spettatore possa giungere infine al luogo che presento: il mio lavoro. Non sono mai sicuro di esserci riuscito e mai lo sarò.

A cosa sta lavorando adesso e/o a cosa le piacerebbe lavorare?

In questi anni rifletto sul concetto di tempo, delle volte guardo in avanti delle altre indietro, mi sposto e guardo.