Catena, la fotografia come connessione emotiva

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ph. di Lorenzo Catena

Composizioni complesse ed evocative in un tempo immediato parcellizzato e discontinuo, un tempo che si intellettualizza prima dello scatto, in uno spazio tra chi attraversa i luoghi e chi li porta dentro. Lorenzo Catena vive a Roma, ed è un architetto innamorato della fotografia dal 2016. Le sue passioni si alimentano a vicenda, trova affascinante partire da zero e dare forma a qualcosa che non esisteva in partenza. La sua fotografia è una ragionata analisi della porzione di realtà che sta dietro l’obiettivo, una composizione fluida e mai definitiva. Si costruisce sugli assi del colore e della luce, sui toni che si assemblano in una sintesi che ci parla dell’ordine naturale delle cose. Il silenzio delle dimensioni e delle linee prospettiche ci raccontano un equilibrio che, una volta scoperto, si plasma come senso all’attraversamento delle architetture che compongono la quotidianità.

Essere in uno stato d’animo per entrare in empatia con il mondo che lo circonda, creando relazioni e collegamenti dove prima non c’erano. Catena entra in mondi diversi solo dopo aver scoperto l’importanza del viaggio. “Quando si viaggia ci si estranea, si dimentica, si va in apnea uscendo in un momento diverso”. Viaggiare gli permette di guardare il mondo con occhi freschi, pronti ad accogliere le novità. Così fotografare, a Roma o in un altro posto, costituisce un viaggio, un cambiamento emotivo, una sorpresa. Un’immagine si trasforma in fotografia solo quando non rappresenta più la semplice realtà ma riesce a raccontarci, o meglio, a suggerire quello che il fotografo voleva rivelare; facendoci emozionare e lasciando spazio all’altrove.

Prima del 2016 non avevo mai pensato alla fotografia come una possibile passione personale, la vedevo come qualcosa di irraggiungibile e per pochi eletti che avevano un dono particolare. Penso però che questa passione sia sempre stata in incubazione dentro di me e che sia esplosa di colpo a causa di un evento particolare. Infatti, dopo che ho accompagnato un fotografo specializzato nella fotografia di architettura (Simone Bossi) a fotografare un monumento a Bologna che avevo progettato con il mio studio d’architettura dell’epoca, qualcosa si è mosso. Una volta visto le immagini finali di quella giornata non mi capacitavo che si potesse raccontare uno spazio in quella maniera, e ho capito le potenzialità e la poetica che poteva farmi esprimere la fotografia. Da quel giorno ho ripreso una mia vecchia fotocamera digitale compatta e ho cominciato a fotografare ogni giorno e quando potevo – mentre andavo a lavoro, pausa pranzo e mentre tornavo a casa, principalmente ritraendo le architetture che trovavo nella mia città. Poi ho capito che ero affascinato più dalle persone che dal fotografare architettura e ho cominciato a studiare i grandi maestri della fotografia. Ho ri-scoperto Bresson, ho scoperto fotografi che non avevo mai sentito nominare, come Alex Webb e Gruyaert. Dopo mesi e mesi di studio ho comprato una macchina fotografica cosciente di come volevo fotografare, e ho capito che ero totalmente innamorato della fotografia di strada. Inoltre, tutto ciò che mi aveva inspirato ben prima di prendere una macchina fotografica, come film, letteratura, poesia, arte e architettura era sempre lì con me e inconsciamente ne attingevo ispirazione.

La rappresentazione degli spazi e le interazioni che in questi sono contenuti è la messa in scena della sua fotografia. La presenza delle persone, della moltitudine inquieta che attraversa i luoghi, ci dice tanto della sua essenza. Una fotografia che ci aiuta a scoprire quello che non conosciamo, luoghi che diventano identità visive, sottraendo restituisce elementi costitutivi alla percezione psicologica di chi guarda l’immagine.

All’inizio non pensavo alle caratteristiche estetiche o caratteriali dei soggetti. Per me erano “figure” da posizionare nel frame. Sceglievo in base alla gestualità o alla forma. Recentemente è cambiato molto il mio approccio, cerco di parlare con i miei soggetti, se posso; di conoscerli – dipende dalla situazione. Questo mi ha spinto fuori dalla mia comfort zone, mi ha fatto crescere molto a livello personale e spero anche fotografico.

Trovo che questo approccio possa aggiungere profondità alle foto, può creare una connessione profonda tra me e il soggetto che non è più una figura astratta. Inizialmente non cercavo queste connessioni anche per paura del rifiuto o che rovinassi il momento decisivo. Però, recentemente, ho capito che per me, certe volte, è gratificante creare questo contatto, a discapito del momento decisivo, innescando piuttosto un momento di complicità tra me e le persone. Come arrivo a sceglierli rimane casuale, certe volte loro scelgono me fermandomi, altre volte basta un sorriso.”

 Joel Meyerowitz, è un fotografo che ammira molto, d’ispirazione per il suo lavoro, per l’eleganza e la duttilità fotografica, saper fotografare tantissimi tipi di soggetti e situazioni, mantenendo una propria visione e sensibilità. Non solo street photography quindi, ma anche ritratto, paesaggio, still life e dettagli e quanto tutte queste cose siano essenziali per concepire un progetto fotografico contemporaneo. Uno sguardo evoluto nella fotografia che lo ha portato ad avere diversi riconoscimenti. Nel 2018 è stato tra le menzioni d’onore della Sony World Photography Festival (categoria London). Nel 2019 Lorenzo è statotra i vincitori del concorso “Summer heat” curato da Magnum Photos. Nel 2021 il suo lavoro è stato selezionato da Martin Parr tra le foto vincitrici della categoria Street Photography per The Independent Photographer Platform.

Si chiama MARETERNO, un progetto con la collaborazione di Valeria Tofanelli e che sarà un libro edito da Eyeshot, la cui pubblicazione è prevista nel mese di Settembre:

“Il progetto è cominciato ad inizio 2020 ed è focalizzato su Ostia, una delle zone meno conosciute di Roma. Abbiamo scelto Ostia per sradicare alcuni pregiudizi che da tempo sono legati a questo territorio e che hanno impedito di metterne in luce le potenzialità e la bellezza di questa porzione della capitale. Ostia è il mare di Roma, un litorale di 16 km che termina dove il fiume Tevere incontra il Mar Mediterraneo e dove i romani trascorrono insieme il loro tempo libero, lontano dalle attrazioni turistiche. Pur essendo parte integrante di Roma, la sua forte identità e dimensione le permettono di essere considerata una città nella città. Per questo motivo il rapporto con Roma è a volte controverso poiché non tutti considerano Ostia parte della Città Eterna. Abbiamo deciso di esplorare la complessità di questo territorio, ammirando lo scorrere del tempo scandito dall’alternarsi delle stagioni, ritrovandoci a fotografare luoghi apparentemente abbandonati in inverno, in attesa che la folla estiva tornasse ad animarli. Ma soprattutto, durante le nostre intense camminate lungo l’ultimo lembo abitato di Roma, ci siamo spesso lasciati guidare dal caso, che ci ha portato alla scoperta di storie molto diverse, ognuna caratterizzata dal differente modo di relazionarsi con il mare: per svago, per scelta o per necessità. Il risultato è stata un’esperienza coinvolgente e personale che ci ha permesso di scoprire realtà che non conoscevamo pur essendo così vicine a casa nostra.”

Lorenzo Riflette mentre fotografa, e si lascia ispirare da qualcosa che non sa ben definire perché troppo preso a fotografare quello che è di fronte a se, si lascia guidare dal suo inconscio.

Molte volte parte da un’idea – ma difficilmente quello che ha in mente quando si trova fuori si dimostra un’idea vincente per il suo modo di fotografare. Il 90% delle volte decide di non fotografare. Di quel 10% dove inizia a scattare (e difficilmente smette), non ha regole ben precise, scatta quello che lo attrae. Ma cerca sempre di fotografare situazioni dove viene salvaguardata la dignità delle persone, una psicologia della percezione che dirige l’occhio sul fluire della vita nascosta dietro gli angoli non ripresi dall’obiettivo.

Nelle mie fotografie nate e prese singolarmente le storie sono concentrate in quel singolo attimo, sono storie molto brevi, potrei dire che sono singole parole ma possono avere un significato in più se accostate e messe in relazione tra loro. Come dice Alec Soth – un’altro grande fotografo che ammiro e che mi ha insegnato molto, a sua insaputa! – spesso quando si parla di progetti fotografici le storie che si raccontano sono più simili alla poesia che alla scrittura di un romanzo, perché non descrivono tutto e sono più frammentate. Sono proprio queste informazioni che mancano, il mistero o l’ambiguità racchiuse in uno scatto – o in una serie di scatti – che danno la possibilità a chi le vede di poter immaginare qualcosa che va oltre la foto stessa e che rende la fotografia ancora oggi un medium artistico interessante da esplorare.”