Eman al Rendano Arena: «Non sono indie, ma preferisco l’autenticità cantautorale alla popolarità»

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Dal reggae al pop, una versatilità vocale che abbraccia testi intensi di impegno e denuncia sociale, frutto delle esperienze che sono il risultato di una lunga gavetta live nei locali. Classe 1983 e catanzarese doc, Emanuele Aceto, in arte Eman, è stato tra i protagonisti del Concertone del Primo Maggio nella Capitale e adesso, grazie alla ripresa degli spettacoli dal vivo in sicurezza, si esibirà martedì 27 luglio alle 21 sul palco del Rendano Arena di Cosenza durante la rassegna Restartlivefest, organizzata e promossa da L’Altro Teatro. Il rapporto con la sua terra d’origine, la Calabria, la visione non convenzionale della musica che fugge da stereotipi ed etichette, preferendo l’autenticità artistica alla popolarità mainstream. «Indipendente ma non indie», ama definirsi mentre parla dell’album che più gli sta a cuore, “Amen“, e dei nuovi inediti ai quali sta lavorando. Se poi cantautorato puro, poetico e sincero deve essere, allora, senza scomodare tramite preghiere e lumini i Santi del paradiso discografico, “così sia”. Dopo “Tutte le volte tour”, e lo stop dettato dall’emergenza sanitaria, la sua voce incanterà la luminosa piazza cosentina.

Non si sente indie ma, di fatto, è un artista indipendente.

«La parola indie ha un significato che genera equivoci. Se un tempo voleva dire indipendente, attualmente si identifica con un vero genere musicale ed è un po’ complicato spiegarlo al pubblico».

Testi sinceri raccontano frammenti di vita. Da dove parte quando compone? 

«I miei brani sono ispirati da storie vissute e, forse, sono quelli i più veri. Poi, quando si ha qualcosa da dire, ci si siede ad un tavolo e comincia la fase di scrittura. Mi lascio suggestionare dal mondo che mi circonda, da ciò che vivo, vedo e leggo. La musica mi porta in un universo parallelo che mi aiuta a comporre».

Come valuta il panorama cantautorale italiano? 

«Immagino che si sia ripreso, aprendo lo sguardo su qualcosa che sembrava âgé o, comunque, datato. Vale il medesimo discorso per l’interesse sulla trap, che è cambiato. Ma, molte volte, alcuni sviluppi passano in secondo piano. È mutata l’idea del cantautore, che non è il solito sempliciotto che strimpella versi accompagnandosi alla chitarra. Si tratta di una figura complessa e colta con un buon livello autoriale. Penso ai giovanissimi, ad eccellenze quali Dario Brunori, una scuola da seguire. Colapesce e Dimartino sono in giro da parecchio e solo ora vengono apprezzati da tutti».

Si esibirà al Rendano Arena di Cosenza in occasione della kermesse Restartlivefest. Da calabrese, con che occhi guarda la sua terra d’origine?

«Gli stereotipi del passato si sono evoluti. Però, se dovessi essere completamente sincero, direi di no, perché voglio bene alla mia terra, la amo. Quindi bisogna affermare la verità: a mio avviso,  dopo anni, paradossalmente siamo ancora al punto di partenza. E nel momento in cui si presenta l’opportunità di emergere, ci si perde in un bicchiere d’acqua. Ad esempio, durante l’esodo dei meridionali dal Nord al Sud che si è verificato nel pieno della pandemia, il problema da affrontare non era tanto quello di farli ritornare quanto piuttosto come far rimanere lì quei figli. Una possibilità mancata. Così, i ragazzi vanno fuori perché hanno bisogno di costruire il proprio futuro e necessitano di stimoli che la Calabria non offre o non dà. Poiché ci si accontenta, pure se i luoghi sono bellissimi e le peculiarità territoriali non sono sfruttate al meglio. Un posto grande, abitato da poca gente, il malaffare è noto, spesso la politica è collusa con la ‘ndrangheta. Non dirlo sarebbe davvero un errore, uno sbaglio. Non si può non informare su una tale situazione».

Non le piacciono le etichette, ama definirsi un musicista autentico.

«Non mi lego ai filoni. Probabilmente non ne sono capace, mi piace fare musica per la musica. Se avessi voluto arricchirmi, avrei scelto il reggaeton. È pieno di persone che suonano esclusivamente per amore dell’arte. Tuttavia, la notorietà è un bene se viene riconosciuto un merito al proprio lavoro, ma è difficile».

Considera il suo brano “Amen”, singolo del disco eponimo, quello che la rappresenta maggiormente. Però a Sanremo, con lo stesso titolo, poi trionfò Francesco Gabbani…

«Ho presentato “Amen” prima di lui, nel 2014, e fui scartato. Gabbani lo propose l’anno successivo e vinse nella categoria Nuove Proposte del 2016. In realtà, ammetto di esserci rimasto male, soprattutto per il valore artistico della canzone, al di là del fatto che fosse mia. Dopotutto, e se ricordo bene, in quel periodo a Sanremo Giovani non c’era un’altissima qualità di testi in gara. Ho vissuto di luce riflessa, perché la curiosità degli ascoltatori, successivamente alla sua vittoria, si è riversata di conseguenza sul mio “Amen”». (ride, ndr)

Ha mai pensato alla partecipazione ad un talent show o queste trasmissioni tv sono troppo mainstream?

«Oggi non credo proprio. C’è da selezionare: se si vuole diventare i Beatles o Vasco Rossi, magari sì. Ma non è detto, si può essere anche altro e meno popolari. Mi viene in mente Fabio Concato, senza volerne sminuire il talento naturalmente. All’epoca era considerato quasi offensivo partecipare a tali programmi per chi, come me, proveniva dai live, dalla famosa gavetta nei locali e dall’autoproduzione. Non nascondo che, approdato all’etichetta Sony Music, andare a X Factor fu una delle prime cose che mi chiesero. Non mi pareva giusto. Per gli emergenti, invece, i talent possono essere un’ottima vetrina di visibilità, i Måneskin insegnano».

Si percepisce lontano dagli schemi commerciali imposti dalle etichette discografiche? 

«Non so se le label impongano regole e strategie precise, conosco il mercato dove si vende uva buona o cattiva. Il mestiere del talent scout si è trasformato, non è identico a quello che si svolgeva in precedenza. Inoltre, i piccoli club, che inizialmente davano spazio agli artisti in erba, chiudono».

Meglio l’autenticità o la notorietà? 

«Preferisco la sincerità. Certo, è sciocco non pensare alla popolarità, chi fa musica logicamente ha voglia di essere ascoltato e conosciuto da un numero di spettatori sempre più ampio e vasto. Ciò nonostante, io resto autentico».

A cosa sta lavorando?

«Si recupereranno le date del tour, saltate a causa della pandemia, e sto mettendo a punto il prossimo album del quale non ho un titolo già pronto. È l’ultima cosa che faccio, come per i pezzi da inserire nel progetto discografico. Ripartiremo da Cosenza, in seguito Catanzaro, Bologna, Milano e Roma. Tappe che, purtroppo, il Covid aveva bloccato».