Gulliver esplora mondi sconosciuti, basta una semplice frase per spiegare il nuovo corso di Giò Sada. Giovanni Sada è arrivato al grande pubblico nel 2015 con la vittoria ad X Factor, seguita da una serie di successi che gli sono valsi il disco d’oro per il singolo Il rimpianto di te ed il debutto del suo primo album di inediti Volando al Contrario nella top 10 delle vendite italiane nel 2016 – una strada già scritta a cui, volontariamente, ha scelto di sottrarsi in favore di una ricerca non solo artistica. Il personaggio di Giò Sada sembrava destinato a seguire l’iter del vincitore di talent, ma questo avrebbe forse significato mettere da parte l’arte nel suo aspetto più profondo e nel suo caso specifico intimo. Non a caso, nel parlare della sua esperienza, ci sono dei confini tra Giovanni e Giò, ma persona e personaggio sono riuscite a conciliarsi anche grazie all’ultima fatica del musicista barese: Gulliver, il progetto nato due anni fa con il quale lo scorso due luglio è uscito l’EP Grande buio.
Quando e come avviene il passaggio da Giò Sada a Gulliver?
Intorno al 2018 dopo un giro di date con il progetto precedente, sono semplicemente arrivato ad un punto di rottura. Dopo tante vicissitudini negli anni con la band e non solo, ho raggiunto un limite di sopportazione che mi ha portato a pensare a qualcosa di nuovo, non solo artistico ma che potesse rigenerare, fare qualcosa di nuovo che potesse curare ogni malessere che si era trascinato assieme alle cose belle. Con il progetto di cui faccio parte, Gulliver, ho fatto un percorso che non vorrei definire psicologico ma che praticamente lo è stato. Ho analizzato tutto quello che mi è successo finora e l’ho interiorizzato, per poi sputarlo fuori. Ho attraversato il mio periodo di buio, fatto di indecisioni e di paure, e l’ho riversato tutto nel disco (Terranova).
Un passaggio che trascende la musica quindi?
Ho avuto modo di maturare avendo a che fare con persone preparatissime e uscire dal quell’idea di corsa alla classifica o di rincorsa senza freni iper-consumistica, concetti che non mi vanno molto a genio. Gulliver è stato un modo per ritornare a quella direzione meno maciullante e fare pace con me e la figura di Giò Sada, c’è stato un momento in cui quella figura mi prevaricava, e dopo un giro di boa ho potuto finalmente ritrovare la serenità anche con quel personaggio.
Come si traduce in musica questo passaggio?
Il progetto Giò Sada era molto legato al rock, con la band ci si vedeva in sala prove e ci si concentrava sugli strumenti classici di questo genere (batteria, chitarra, etc.), molto diretto senza troppi giri. Giravamo con le band hardcore per l’Europa e gli obiettivi erano semplicemente spaccare e vendere più merch possibile. Con Gulliver invece è come se fossi tornato a studiare, dietro ogni suono ci sono mesi di ricerca e siamo passati ad un lavoro molto più improntato sullo studio dei generi – è stata l’occasione giusta per approfondire tante cose che prima non rientravano nella nostra musica, ad esempio abbiamo avuto la possibilità di lavorare con persone come Pasco Pezzillo dei JoyCut che è un grande ricercatore del suono. Stare vicino a lui mi ha aperto un ventaglio di possibilità estremamente diverso, per farti un esempio: poter fare un pezzo con la chitarra e poi andare a toglierla, quindi privarlo della sua spina dorsale, è solo un esempio del piacere della sperimentazione. Accanto al percorso della ricerca sonora c’è quello di riuscire ad evocare delle cose, che è il lato che mi affascina di più quando ascolto le colonne sonore; dopo tre note, senza parole, riescono già a portarti altrove.
La sperimentazione non rischia di andare contro le aspettative del pubblico?
Non sono una persona che tiene ad una coerenza creativa, nel senso di ripetersi musicalmente, è questo il mio modo di comunicare e non posso renderlo sempre uguale. Alcune major restano nella convinzione che la gente sia incapace di capire, così si scade nell’appiattimento.
Un progetto ambizioso come Gulliver in che modo risente l’esperienza di X Factor? Il talent è stato un amplificatore o un freno?
Certo da un lato ci sono le sue difficoltà, io così come la mia band non volevamo rimanere ancorati alla vittoria di X Factor con cose come “buttare fuori la hit dell’estate” e quel meccanismo che ne consegue, ci hanno anche provato a farcela fare. Arrivati a quel punto in cui ti propongono più soldi in base alle loro direttive, abbiamo scelto di sottrarci semplicemente per non essere bloccati. Potevo continuare su quella linea con il beneficio di finire su tutte le radio, magari con una canzone che non sento mia, però poi quella cosa finisce e sarebbe stato molto più difficile uscirne per tentare di fare qualcos’altro. D’altro canto è ovvio che il talent ti permette di stringere tanti rapporti con persone del settore, con molte delle quali stiamo attualmente lavorando. Certo, c’è il problema di essere identificato con quella cosa ma sta a te ed al percorso che fai confermarla o no.
Arriviamo così al tuo EP, Grande Buio, cosa rappresenta in questo percorso che ci hai raccontato?
Questo Grande Buio è come ti ho già detto il giro di boa, fare pace con il mio personaggio e tornare ad essere una cosa sola. Il grande buio è il momento in cui nel 2017 mi sono chiuso nel mio trullo e mi sono messo a scrivere, all’interno della canzone in tempi non sospetti parlo di una malattia, una malattia legata alle brutture umane quindi il propagarsi della prepotenza, dell’intolleranza, quando il cielo diventa nero spiega che accanto alla difesa dei diritti civili c’è una violenza consumistica e questa violenza del consumo è per me di pari entità, una vessazione di una minoranza. Tutto messo sotto la teca del ben pensare. Di fronte al propagarsi di questo grande buio, fatto di intolleranza e prevaricazione, io mi auguro di ritrovare la natura umana.