Andrea Leanza, artigiano del cinema candidato ai David

0

Andrea Leanza è uno dei migliori artigiani del nuovo cinema italiano. Giovane sognatore, dotato di grande umiltà e simpatia, è riuscito negli anni a divenire un nome di riferimento grazie alla sua forte professionalità espressa su importanti set tra cui World War Z, Il Racconto dei Racconti, Il primo re. Adesso, alla luce della seconda candidatura ai David di Donatello per il miglior trucco nel film Hammamet di Gianni Amelio, l’artista Leanza ci racconta il duro lavoro che si cela dietro le quinte dei film.

Com’è stato lavorare sul set di Hammamet, al fianco di un maestro come Gianni Amelio?

Emozionante. Sono sincero, non ho una cultura enorme riguardo il cinema italiano perché sono cresciuto con i film cult americani degli anni ’80 come I Goonies, Navigator, E.T., Guerre Stellari, Indiana Jones. Per cui, per me quelli erano i “film”. Quando mi hanno proposto il lavoro dicendomi che la regia era di Amelio, io non lo conoscevo, poi, dopo essermi informato mi sono reso conto di essere sul set con un regista che ha fatto la storia del nostro cinema. È stata una fantastica esperienza. Io comunque, tutte le volte che lavoro sul set, sia con il grande maestro che con l’esordiente mi rapporto allo stesso modo, stessa cosa anche con gli attori.

Guardando il film ci si dimentica che quello sullo schermo sia un attore. Come sei riuscito a trasformare Favino in Craxi? E così bene tra l’altro.

Intanto ci tengo a dire che non ero da solo e che senza coloro che mi hanno aiutato il lavoro sarebbe stato molto più difficile. Un conto è fare una cosa del genere per una dimostrazione ad una fiera di truccatori e un altro conto è creare una cosa che dev’essere sempre curata allo stesso livello per tutti quei giorni di riprese in continuità, con cambi di età e con così tante ripetizioni. Ci sono mille cose a cui pensare, poi spesso ci si dimentica di tutto il lavoro che c’è dietro ad un risultato del genere, la nostra squadra era composta da diciotto persone, quindi ci sono mille cose a cui pensare a partire dal numero di lavoratori e le giornate a disposizione, le paghe, i materiali da acquistare, l’organizzazione delle spedizioni e così via. Solo il trucco di Favino richiedeva quattro ore e pensa che all’inizio durava anche un po’ di più, però man mano siamo riusciti ad ottimizzare al meglio il tempo. Ci tengo a precisare che Federica Castelli è stata una parte importantissima di questo lavoro, con lei abbiamo supervisionato assieme la squadra e abbiamo preso assieme le decisioni tecniche-artistiche-organizzative.  È logico che il designer venga preso sempre in considerazione come nome che viene fuori, però dietro c’è tutta una serie di persone che contribuiscono alla riuscita dell’opera. La trasformazione in Craxi si è rivelata molto complicata, soprattutto perché l’occhio umano percepisce la geometria del volto di una persone e dunque si accorge della finzione qualora si veda. La prima cosa che ci ha chiesto Gianni è stata di mantenere il più possibile l’attore e meno il personaggio, voleva che noi dessimo una sensazione di Craxi su Favino. Abbiamo fatto un primo provino sulle sue direzioni e quando ha visto il risultato è rimasto impressionato dal livello di realismo delle protesi e quindi, più lo guardava e più si convinceva che la cosa giusta era di fare una completa trasformazione. Allora ci ha detto: “Mi piace molto la parte che avete trasformato. Vi lascio carta bianca, trasformatelo completamente.” La parte più difficile per Pierfrancesco era il lavoro sulla mimica facciale, perché i suoi muscoli dovevano muovere le protesi che aveva sul volto, e quando sorrideva guardandosi allo specchio si rendeva conto di avere un sorriso arcigno. Quindi ha dovuto imparare a sorridere con la faccia del personaggio, allenandosi allo specchio per capire i movimenti che doveva fare per esternare un’emozione.

Adesso sei candidato al David di Donatello. Però non è la prima volta, giusto?

Sono stato candidato anche l’anno scorso per Il primo re perché sono stato tra i co-designer della parte trucco assieme Lorenzo Tamburini, Valentina Visintin e Roberto Pastore. Anche quella è stata una bella esperienza ma faticosissima, perché un film del genere è raro da vedere in Italia. Siamo stati in mezzo al fango, zanzare, freddo, vento subendo di tutto e anche lì ci sono stati tanti mesi di laboratorio, perché vi erano mille cose da fare a partire dall’aspetto degli abitanti dell’epoca ai cadaveri sanguinanti.

Cosa ti hanno lasciato queste due candidature ?

Fa un bell’effetto, anche se ti dico che vedo i premi come una buona occasione per dare un po’ di visibilità anche alle categorie meno celebrate solitamente, come il trucco ad esempio. Devo ammettere che ultimamente sembra esserci in corso un nuovo Rinascimento nel nostro settore in Italia, ci sono dei talenti straordinari che stanno venendo fuori e finalmente le produzioni stanno cominciando a capire che quei talenti sono figli di questa terra e che non bisogna cercarli fuori.

Com’è stato, invece, lavorare sul set de “La particella fantasma” di William Lombardo?

È stata una bella avventura anche quella, perché era una crew tutta di giovani appassionati del loro lavoro. Ho avuto modo di vederlo di recente su My Movies, in occasione della kermesse Los Angeles-Italia Film Fest e posso dire che è veramente un bel lavoro di qualità, proprio eccellente. È un cortometraggio in cui si sente la forte passione di tutti coloro che vi hanno preso parte.

Credi che il cinema italiano debba sognare di più?

Guarda, io sono innamorato di Georges Méliès. Quando ho visto Hugo Cabret ho pianto e tutte le volte che lo rivedo mi commuovo perché sento che non è un film, è una dichiarazione d’amore nei confronti del cinema. Per me quello è il compito dei film, farti viaggiare con la fantasia. Devono condurti in luoghi che non potresti mai vedere, farti provare emozioni che magari non vivrai mai nella tua vita, e poi sono uno che guarda tutti i generi, se un film è fatto bene e mi trasmette delle emozioni mi piace.